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Presa di coscienza

Elucubrazioni semiserie di mezza età (trascorsa/trastullata/persa) in chiave verticale. Il classico sermone di mezza stagione.

“Always climbing, to fall down again”
(Alice In Chains, da Voices)

Come cambiano le cose con la presa di coscienza che di tempo sopra appigli e appoggi, veri o finti, ne hai passato! Prima contava soprattutto l’aver fatto, realizzato; ora conta quantomeno l’aver visto, o potrei dire: l’esserci stato. Che poi, fra appigli e appoggi, quali ti ricordi più facilmente? Ai primi si concede un privilegio forse immeritato, giacchè è piuttosto coi secondi che sali generalmente, come tecnica di base comanda, e che nell’attimo cruciale ti sanno salvare!
Andrea Gallo sosteneva per se stesso che questo percorso di ricerca verticale conducesse dagli appigli più piccoli a quelli più belli: un po’ è certamente vero, ma – al di là che fra di essi è sempre possibile trovare un equilibrio – ci vogliono comunque tempo ed esperienza a riconoscer solo o, prima degli altri, quelli.
Molto probabilmente la linea parabolica che segnano le mie prestazioni rispecchia le diverse decisioni che ho scelto di prendere, ma ciò che scalo mostra quel che sono solo in un certo senso e fino a un certo punto. Ecco perchè il presunto riconoscimento sociale che si concede ai forti ha poco senso, in quanto non significa od implica niente al di là della pura prestazione sportiva, ma anche un atleta più o meno forte forse può essere (anche) qualcos’altro. O no? Spetta a loro dimostrarlo, come ad esempio fece Chabot. A noi, benchè ormai siamo mediamente vittime dei social, spetta unicamente dimostrare a noi stessi che sappiamo trovare un equilibrio fra passione e quotidianità, ed un senso ad una pratica che altrimenti non ne ha.

Il percorso che ognuno di noi segue ci porta su strade diverse, pur partendo dalla stessa esaltazione. Terminati tutti i sondaggi online sui gusti personali o sulla qualità dei materiali, sarebbe bello proporne uno che ponesse la questione: cosa ti ha lasciato, dopo anni, questo impegno intensivo extralavorativo? A) Consapevolezza di se stessi; B) Consapevolezza del mondo esterno; C) Un fisico scolpito; D) Emozioni indimenticabili; E) Nulla.
Oppure: cosa ricordi maggiormente, dopo anni, di quest’attività? A) Appigli e/o appoggi; B) Panorami; C) Amici; D) Palestre indoor; E) Nulla.
Attenderei poi con ansia il commento tramite editoriale di un qualche professorone della verticale, più o meno dedito allo spaccio di droga minerale od alla propaganda commerciale.
Quello che sono e che siamo come comunità, o che dovremmo voler diventare, nessuno me lo può suggerire; tutt’al più, e già vi concedo molto, ne possiamo parlare. Senz’altro qua c’è ancora un po’ di posto per chi il proprio posto giusto nel mondo ancora con esattezza non lo ha definito, e scalando ancora lo ricerca, guardandosi un po’ attorno e un poco dentro fra culi per aria e muscolose schiene, fra libertà etiche e solide catene.

Il bello e il brutto tutti li sappiamo, è come la medaglia e il suo rovescio: la parete che si staglia luminosa di prima mattina e la cacca di climber lì nei pressi la cui puzza si fa sempre più vicina. Quello che siamo è lo stato delle cose che contribuiamo a formare ogni giorno, senza mai distruggerne una parte o aggiungere qualcosa che non siano spit. Salvo casi rari (ed esposti mediaticamente in quanto comodi al sistema), raramente qualcuno si spinge a muoversi al di fuori del proprio ambito di passione o di lavoro, e/o del proprio territorio, e allora trova subito chi – del territorio avendo fatto un mito, e del servilismo opera o carriera politica – lo redarguisce: così accadde tramite letterine minacciose a Pareti ai tempi della guerra eterna – quando, accusato di noglobalismo o comunismo, Andrea Gennari Daneri meritò da certi lettori il consiglio di recensir piuttosto nuove falesie! – ; così accade oggi ai cantanti recalcitranti, per non parlar dei sindaci che si oppongono alla chiusura dei porti ai disperati: solo gli esseri umani ricchi e le loro merci ci danno speranza di nuova vita da replicare come automi, il resto è merda che annaspa nel mare dei profitti da capitale, e ci può anche crepare. Tanto la colpa la sappiamo già a chi dare: scafisti, ONG, buonisti, perfino ai negri stessi, insomma a chiunque al di fuori di padroni e Stato. Non so neanche fin qui come ci sono arrivato, dev’esser forse perchè la falesia che idealmente preferisco si trova in riva al mare o nelle sue immediate vicinanze, cosicchè il naufragio è ipotesi che vedi ad occhi aperti, più che stando in mezzo a un bosco o a un prato, anche se l’hai solo immaginato.

Come il coraggio o la disperazione, come il tempo e come il mare, anche l’arrampicata è prendere o lasciare; accettare se stessi e i propri limiti e nel contempo faticare per superarli. Ma c’è qualcosa che da un tot mi suggerisce una lettura forse un po’ troppo ambiziosa, ovvero: che quella posizione che ricerco freneticamente dibattendomi come una serpe sulla placca corrisponda, su altro piano, alla posizione che vado cercando fuori, nel mondo, e dentro, nel profondo. Ecco allora perchè il riuscire mai davvero mi soddisfa: perchè quella catena l’ho raggiunta, non me la sono tolta. Non è un processo di liberazione che sto percorrendo, bensì di minuscola e modesta accumulazione. Poco o nulla di diverso da quanto faccio già in città e da quanto mi succede attorno. Non dovrebbe stupirmi quindi che sempre più spesso il sorriso, perfino quello d’una momentanea vittoria, mi si trasformi presto in ghigno e il viso in grugno.

La presa di coscienza è quasi certamente l’appiglio più sfuggente, più difficile da scovare e da tenere in pugno; eppure, è anche quello in grado di mantenerti dignitosamente vivo. Quello che in nessuna gara viene considerato, giacchè l’intrattenimento deve aver la meglio nella fase temporale che segue il sacrificio lavorativo. Ed io la tengo stretta tanto che la mano trema, la roccia si sbriciola e la presa – toc! – si rompe: casco così nel baratro del circo mondano e modaiolo…ma mi ritrovo appeso alle mie quattro sicurezze in croce, a un imprevisto che modifica il destino, preso al volo; e però, siccome son restato lì sospeso, quantomeno so che non sono rimasto solo.

(foto tratta dal Climbing Business Journal)

Riflessioni in semilibertà di un climber in pantofole.
Oppure: riflessioni in pantofole di un climber in semilibertà.
Marzullerie da placca o da strapiombo per non soccombere o scivolare in pandemia.

Avvertenze e posologia: immergetevi e leggete in modo fluido (sperando che scorra), come se fosse un video su YouTube.
Andiamo alla ricerca di un’origine della (faccenda) verticale, senza che sia per forza storiografia, scorrendo le pagine vorticose di una vicenda tutta nostra, eppure non del tutto in mano nostra; cercando di non restare solamente fermi alla superficie delle cose, come nello sfiorar la pelle o carezzando la pietra percepiamo sensazioni e vibrazioni che vanno oltre la materia, che dopotutto è polvere e ancor prima idea, concetto, esperienza; cercando di trasformare ogni finale in un nuovo inizio il più possibile coerente con quel che lo ha anticipato e di cui non può far senza. Ogni filmato, una volta concluso, può ricominciare ed essere guardato, ancora e ancora, per coglierne aspetti più nascosti, rivelazioni più discrete. Quanto agli effetti collaterali: se scalate, già li conoscete.

Il regista della faccenda

“mi spiace vedere che si stanno perdendo dei valori che sono la base per un sano futuro.” (Delfino Formenti, dalla Bacheca di Larioclimb)

L’arrampicata è, anzitutto, illusione.
La concretezza del gesto e la materia su cui lo scalatore si muove sono elementi utili soltanto alla realizzazione di un sogno, di una fantasia verticale non completamente nostra, ma che facciamo nostra (espropriandola al chiodatore, unico vero regista della faccenda), rielaborandola e adattandola alle nostre personali esigenze.
Stringere in mano la presa-chiave dopo averla intuita è avere in pugno il mondo, o quantomeno la nostra minuscola vita. In uno o pochi attimi appena si fa tangibile una speranza costruita in lunghe ed acciaianti serate di allenamento, magari disegnata nottetempo, risvegliandosi cadendo a un passo dalla soluzione.
Raggiungere la sosta – a seconda che si sia pratici di vie lunghe, alpinisti, o falesisti da monotiro – è un primo passo verso l’innalzamento al cielo, oppure la prova definitiva della nostra infima grandezza.
Si crede d’essere così quel che si fa, che si realizza. La fatica sostenuta per riuscirci è un bell’esempio meritocratico di umiltà e di coerenza etico-morale (ottengo per quel che sgobbo), ma sempre più lascia lo spazio ad interpretazioni fascio-macho pronte da smontare, o a più moderne riletture comode e rasserenanti, secondo le quali il percorso verso la vittoria andrebbe il più possibile facilitato: tutti debbono poter sognare. La democraticizzazione mercantile di quest’attività sta conducendo ad esiti discutibili, che vale la pena analizzare criticamente.
In sostanza, non so se sia per far crescere in consapevolezza tanta gente che questa roba s’è fatta prima sport e dopo business, e infine più niente: il nulla gonfiato attraverso interviste inutili e videoclip di eccezionale qualità, se a parte il salire e scendere ogni tanto si tacesse. Perchè non c’è granchè da dire di una nuova performance che non siano le emozioni non condivisibili del salitore (“difficilmente si provano le medesime soddisfazioni. Ognuno ha un suo percorso, una sua storia”Andrea Gallo): suo l’indicibile sforzo, suoi i favolosi gesti, sua la vita intima che sempre più si fa pubblica e sociale, per poter sostenere il peso della commerciabilità d’un’idea tanto estrema in origine quanto oggi alla portata di tutti, o quasi.
Il fatto è che l’illusione dell’arrampicata è sempre stata un fatto nostro, genuino, pensato unico, senz’altro vero laddove ci s’aggrappi ad un rinvio oppure s’impugni la catena; mentre, per dire, chi va a morire in ciabatte sul Bianco cede alle lusinghe d’una pubblicità molesta quando non mortifera. Si deve poter fare (leggi: spendere), si deve poter avere (leggi: comprare), si deve poter andare (leggi: arrivare), ma nulla e nessuno pensano a quel che si è durante il percorso e, se ancora si sarà, al ritorno. Avremo forse tenuto occupato un giorno, perso tempo, oppure guadagnato un pezzo di noi da salvaguardare, custodire, da non raccontare. Ecco, l’arrampicata è, fra le altre cose, questo segreto tutto nostro. Il contrario dell’amo gettato ai pesci nell’acqua che forma il calcare, modella appigli e appoggi, in cui ti dicono che ti puoi tuffare. Preferisco starne fuori, non abboccare, ammirare il prodotto di un’azione naturale, e solo allora combinar qualcosa. L’arrampicata è quello in cui credo che diventa azione, pur non comportando un benessere immediato per alcuno fuorchè al detentore di quell’illusione. E’ il contrasto fra gli opposti, l’alto e il basso, il freddo e il caldo, l’ombra e la luce, e tante altre ben note ma sempre stupefacenti banalità. E’ la fiducia in sè e nell’altro, il/la compagno/a della salita, che di quell’illusione singolare permette la realizzazione, la trasformazione in realtà quasi di coppia (uno fa, l’altro/a fa accadere). Cose vere, cose false, cose credute vere, pretese anche se false (quell’appiglio scavato, spaccato, quel resting che ho dimenticato); numeri, date, pagine da leggere e trascrivere, novità da ricercare; emozioni e sudore, la bellezza di un’abitudine che non ti ha mai stancato. E’, in fondo a tutto, probabilmente, amore (per sè, per la natura, per il prossimo quando possibile), e l’amore è la più indescrivibile delle illusioni; ma si sviluppa in progettualità e visioni, non per forza tipiche soltanto di un regista navigato.

Il senso della faccenda

“Sono sul bordo di una rupe, / a superare il comfort e la sicurezza.” (Patrick Wolf, da Wind In The Wires)

E’ ormai un fatto acclarato che l’arrampicata non sia più passione, ma consumo. Ed è la passione medesima che rischia alla lunga di consumarsi. Il segno del tempo (sulla roccia, sulla pelle) m’infastidisce; ma il segno dei tempi mi spaventa.
L’idea che mosse i pionieri di questo sport-che-è-sempre-stato-molto-più-di-uno-sport (definizione che ha ormai un che di retorico, ma che continuo a ritenere vera) è piano piano svanita, lasciando il posto al business ed alla mediatizzazione estrema di una pratica che lo è sempre meno. Così facendo si è progressivamente rimosso un aspetto rilevante dell’attività, mascherandolo come se fosse sempre presente, ma mentendo: le emozioni propagandate dalle pubblicità sono aria fritta. Fanno un po’ pena certi video dai toni giovanilisti, al di là dell’indiscutibile talento dei protagonisti. Mi rendo conto che la cosa, attraverso l’esposizione mediatica, possa contribuire a fare uscire la scalata dalla (supposta) condizione di Cenerentola di tutti gli sport (sempre che a qualcuno interessi); ma mi pare che in sostanza il racconto, per quanto supportato dalle parole in prima persona dell’atleta, permanga ancorato ai luoghi comuni e all’ignoranza in materia dei più. E l’entusiasmo dei più giovani trasuda talvolta il vuoto di questi tempi falsi, costruiti, plastificati, quasi senza difetti. Non sempre, ovvio: non esageriamo; ma seguiamo una traccia come fosse un sentiero su cui siamo finalmente noi a piazzare ometti.
Come mi permetto di arrivare a valutare addirittura i valori che presumo guiderebbero una generazione?
Accidenti, è vero; forse non posso spingermi a tanto. Sicuramente esistono casi in cui il sentimento è sincero e l’intenzione di conoscere arrampicando (aprendosi al mondo, imparando – e contribuendo a fare – la storia di un’attività, confrontandosi con la realtà delle cose oltre che con la sola gravità) ben presente. Ma per i più si tratta semplicemente di una riproposizione artefatta di gesti d’altri, già visti, già vissuti, già compiuti e superati. Sempre più mi convinco che il solo visionario sia il chiodatore, e non il ripetitore. Ma anche nel suo caso, allorquando l’azione sia mossa non soltanto da genuina passione bensì da altre finalità (richieste da parte di enti statali, ecc.), il risultato, benchè ottimo da un punto di vista tecnico e della sicurezza, può apparire asettico e poco entusiasmante.
Insomma, ce l’ho con tutti: giovani in lolotte e vecchi in croce, chiodatori matti e climber inchiodati sulle loro vie. La ricerca di un’identità omologante è divenuta disturbante. Una volta cercavo nel negozio di materiali e abbigliamento qualcosa per essere me stesso, diversamente simile a pochi; oggi si ricerca disperatamente qualcosa che serva a somigliare il più possibile a tutti gli altri, nel vestito e nel pensiero (e non è meno patetica l’assai poco originale stravaganza dei c.d. trasgressivi). La ricerca tecnologica per permettere al climber di pesare qualche grammo in meno quando in parete s’è fatta quasi ridicola; tant’è, era aspetto che premeva pure a me quando inseguivo ostinatamente il mio misero 7b a vista con meno roba possibile addosso, tanto da rischiare di dover saltar dei chiodi… Tale ricerca oggi sembra servire unicamente a fini preoccupanti e gravi (guerre ed armamenti: la stessa rete internet ha origini nel campo militare) oppure inutili, risibili come questi; forse per farci credere d’essere al nostro servizio sin nei più infinitesimali dettagli, nelle più ridicole esigenze. Ma la gente continua a crepare per le stesse solite inconcepibili ragioni, eppure non si muove un dito, non si blocca un istante il meccanismo di morte in vita che ogni giorno sopportiamo. E qui c’è più poco da illudersi, sognare o sperare: la nostra piccola cosa fatta di roccia e chiodi si scontra, sfracellandosi come onda, col muro della stupidità fatta sistema sociale, economico e culturale. Alexa, spegni l’inquinamento!
Se ancora dunque l’arrampicata può avere un’importanza in questa nostra breve esistenza, dovrebbe essere non solo quella di farci stare bene, sollevandoci per qualche tempo dalla caotica pesantezza dei nostri “ruoli definiti nel colossale formicaio delle città industriali” (Gian Piero Motti); nè di condurci – privilegio che spetta a pochi – a chissà quale vertice di una storia sportiva fatta di atletismi perfetti, sigle e numeretti: questo non è che il piano più superficiale di tutta la faccenda. Essa dovrebbe invece comportare un passaggio – il più difficile – dall’illusione del singolo alla verità collettiva: un bloccaggio tanto basso per cui ci si può allenare, ma non si saprà mai con certezza di poterlo fare, e nessuna gara mai lo certificherà.

(foto tratta da YouTube)

No Pig

Plogging, Eco-climbing, dategli il nomignolo da new economy che volete.
Il futuro è fatto di spontaneismo, come peraltro fu il passato – sempre che basti.

“Il climber con cura e pulizia del luogo continua a proteggere la parete e i prati sottostanti come e meglio delle nostre case. Quando sono lì, mi trovo a casa.”

Mi spiace disturbarvi periodicamente con i miei grugniti, ma devo ammetterlo: più che falesie No Big, sogno falesie No Pig. Luoghi da sentire nostri anche se non ci appartengono, da rivalutare più che antropizzare. Siti di diverso interesse rispetto ai soliti divertimentifici, dove non si va per sfogarsi, ma per stare bene e fare stare bene pure gli altri, facendo propria la mentalità del chiodatore. Può darsi che un giorno tutto questo avverrà attraverso prenotazione tramite agile app, questo non so prevederlo, ma finchè restiamo liberi di muoverci, di fare e di disfare mi piacerebbe che almeno nel tempo libero non ci facessimo sopraffare, nè dalla cultura dominante della performance ad ogni costo, nè dai comandamenti del dio consumo, che la scalata vorrebbe potesse sostituirsi anche al pensare – financo dove e quando e con chi andare. La mia, la nostra minuscola, settaria libertà era la guida del Finale da passar di mano in mano sotto ai banchi del liceo, desiderio di fuga, sogno d’un luogo all’epoca ancora più immaginato che esplorato, conosciuto, amato. Quegli esordi che oggi mi riappaiono offuscati dalla nebbia del passato raccontano di vallette desolate e boschi silenziosi, ormai una rarità, anche se mi resta la certezza che questa – per quanto addomesticata, rivenduta e resa fruibile in varie maniere – rimarrà sempre e comunque un’attività di nicchia, riservata a pochi, non certamente eletti, quanto un poco fortunati ed un poco depositari di un sapere, di una cultura certamente anche da diffondere e da condividere. Ma siccome la fatica, specie se inutile, non è mai stata di moda, e basta fare quattro passi in più per ritrovarsi soli, confido nella pigrizia altrui, che riesce incredibilmente a battere la mia, e che ci regalerà – da un lato – nuovi scempi, ma dall’altro nuovi (ir?)ripetibili momenti di pace da contrapporre al caos infernale della società ex-industriale, oggi un formicaio di gente che corre non si capisce dove, visto che non sembra funzionare più granchè, il lavoro langue (oppure è troppo), e il nostro desiderio è esangue. O forse no. Perchè questa passione rimane talvolta, anzi spesso, oltre ad un bel giochino, quel fremito originario che ci mantiene in vita e ci sollecita a sognare, a immaginare ancora. Tanto che più emozionanti del viaggio sembrano i preparativi. Quanti posti mi mancano da visitare, quante realtà non solo verticali, quanti nuovi giorni, quanti panorami. E pensare che avrei potuto restare a dare calci ad un pallone su campi di ghiaia di periferia. Quante differenze fra sport comunque appassionanti, diversamente nobili.
In falesia non c’è un calendario predefinito, si fanno i salti mortali per scalare più che si può, rubando le ore a famiglia e lavoro non appena il tempo si fa bello.
In falesia non c’è lo spogliatoio, anche se il mio primo socio ai rami degli alberi appendeva la giacca e anche l’ombrello.
In falesia non c’è l’allenatore, al limite in palestra, ma per quanto mi riguarda sono stato io a decidere come quando e quanto farmi male, specialmente interpretando in modo originale le tabelle forza + resistenza di tal Gianni, dando lavoro a fisioterapisti per decenni.
In falesia non c’è la squadra, che si limita al binomio arrampicatore + compagno/a, cui al massimo si aggiunge la banda degli amici, duri e puri nell’amicizia nel corso degli anni.
In falesia non c’è nessuno addetto a controlli e pulizia, spetta a noi non lasciar tracce (anche di magnesite) e ripulir da erbacce e sassi qualche via.
In falesia non c’è un cartello esplicativo sulle regole da seguire e comportamenti da adottare, è tutta storica farina del nostro sacco, e qualsiasi domanda minima o scomoda andrà rivolta alla propria coscienza.
In falesia non c’è sempre il parcheggio, iniziamo con le note dolenti: a volte ti accontenti, a volte te lo inventi, a volte resti senza.
Infine, manca un’ultima cosa che già ho fin troppe volte sottolineato, e pesantemente lo rimarco: in falesia non c’è il cestino della spazzatura, e neanche il bagno (anche se ci stiamo arrivando), per cui per non sporcare vi dovete auto-organizzare, animali! Altrimenti, visto che sembrano esser diventati degli sportivi pure loro, potete sempre unirvi a un branco di cinghiali.

(foto tratta da Ippoasi)

Saganaki mon amour

Dal vostro corrispondente low cost (diciamo pure volontario) da Kalymnos.
Il vento è furibondo. Il clima è incendiario.

“Who set the world on fire?/It was me, I set the world on fire” (Stick Figure, da World on fire)

“Le vacanze sono un momento curioso in cui tutto sembra fermarsi e invece tutto continua ad esistere. (…)
I nostri piccoli cervelli hanno difficoltà a far convivere le nostre preoccupazioni personali con le infinite sofferenze degli altri. Ci sdraiamo tranquillamente sulla spiaggia e altri invece in quello stesso momento stanno morendo, uccisi e violentati.”

“L’estate dovrebbe essere usata per riflettere sulla propria condizione e sul mondo, per arrivare al fondo delle cose e non per stupirsi”

La guerra andrà mai in vacanza? Frattanto, da sempre, le guerre ci arricchiscono, permettendoci le vacanze. Problemi etico-morali da porsi? Nessuno. Anzi, come insegna Toti, ce lo rivendichiamo con orgoglio di costruire e commerciare cacciabombardieri e droni-killer, perchè non dimentichiamo che “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” (senza ulteriori valutazioni di merito), e i sindacati in generale son contenti di non dover fare battaglie anche su questo. Un po’ di simbolica vernice dei soliti noti sanziona qua e là il losco malaffare che definiamo la nostra normalità, dopodichè possiamo rilassarci fra ridicoli selfie e un (anti?)conformismo trash. Al climber medio(cre) per esempio, per trovar conferma del proprio insostituibile ruolo sociale, basta raccontarsi la favoletta dell’arrampicatore buono che, senza alcuno sforzo, semplicemente svagandosi, salva il culo all’economia isolana del poveraccio greco rifornendolo di cash. Facile fare del bene al mondo così, da mezzi ricchi, accontentandosi di una forma di redistribuzione del reddito a sola nostra cura, ovvero da parte di altri poveracci un poco meno poveracci di altri; serve a togliere dall’orizzonte qualsiasi fantasia di reale cambiamento dello stato presente delle cose, oltre a sciacquarci comodamente la coscienza. Abbiam lasciato che di rivoluzionario restassero detersivi e dentifrici, mentre andare in vacanza al risparmio sentendosi facoltosi ed al contempo pure benefattori dà una sensazione autoassolutoria non da poco – anche se rischia di fare incazzare qualcun altro. Continua ad andare tutto bene nel migliore dei mondi possibili, e nel mentre rimugino sui miei dannati resting scorrono mescolandosi agli appigli e alla retsina le immagini del quartiere di Exarchia illuminata dalle molotov ad Atene. Cosa vorrà ‘sta gente, mah, chissà. La risposta la trovo alla Baia dei Pirati, dove le giornate scorrono lente sulle note di World on Fire degli Stick Figure. Acqua davanti a me, fuoco nell’aria, e tutt’attorno roccia. Tant’è, a questa turistica pienezza manca ancora e sempre qualcosa. Non più la performance, divenuta utopia più delle mie idee; non il tempo, non il cibo, e neppure il respiro, che percepisco intensamente mentre faccio il morto a Palionisos Bay. Manca la serenità di un’epoca che non c’è più e forse non è mai esistita, dal momento che le cose peggiori ci son sempre successe tutt’attorno o addosso senza che potessimo evitare di sentirci impotenti o ininfluenti, anche se oggi ti fan credere di poter salvare il mondo acquistando un pacco di biscotti. Voglio scendere in piazza non per l’Ucraina, con la bandierina colorata, ma per gli ucraini, per quelli che non si arrendono all’evidenza; e non contro la Russia, bensì per i russi, per quelli che non si rassegnano all’obbedienza. Ma se sull’isola riescono a litigare perfino fra chiodatori – inglesi, autoctoni, francesi! * Non lo so, tutto sembra tanto semplice in teoria che viene effettivamente il dubbio di stare a banalizzare qualcosa di assai più complicato nella pratica, come quando guardo un itinerario impegnativo dal basso ed ipotizzo strafottente un 6b+. Ma se l’arrampicata ci trascina più d’ogni altra passione puerile o civile è un po’ anche perchè in quell’ambito è forse ancora possibile fare ciò che si desidera con senso di responsabilità per gli altri e assieme soddisfazione personale. La gratificazione di ogni piccolo sogno che diventa faticosamente realtà condivisa resta impareggiabile, mentre tutt’attorno regnano l’imperscrutabilità e l’inganno, il disagio e l’imbarazzo, l’ipocrisia e la confusione, la vergogna ed il dolore. Per cosa si vive? Per cosa si muore? Non siamo più abituati alle domande basilari, che per altri sono ancora peggiori. Lo scalatore che nei ’70-’80 ha sfiorato ardimentosamente il rischio massimo con le solitarie forse sa un po’ meglio di cosa si tratti, ma oggi che è diventato tutto un immenso videogame il rischio, ribaltato, è quello di rendere un gioco persino l’orrore.
Fra continue ansie e ciclici terrori penso che siamo tutti decisamente sempre più fuori, ma cerchiamo di starci dentro ancora un pochino. Recuperiamo le condizioni base per il nostro ed altrui benessere, senza troppo esigere ma senza neanche rassegnarci al meno peggio, od al peggio direttamente. No, non voglio consigliarvi che cosa votare o non votare, nè di iscrivervi ad un altro corso di yoga, che male non può fare, ma neppure vi curerà davvero, se non tramite una meditata distrazione rispetto allo stare concretamente a questo mondo. Rimettersi a posto con la schiena dopo una settimana di scalata è anche un mio problema, ma è restare con la schiena dritta e a testa alta nel resto del tempo il problema più pressante, visti i tempi cupi che si prefigurano.

Comunque, giusto per dare un senso al titolo, sennò che cosa vi siete letti questo ennesimo pippone grimpolitichese a fare: sebbene la foto sia stata scattata dall’ottimo Panos, quello presentato magistralmente dalla Aegean Tavern resta il saganaki cheese più spettacolare, non ci son cazzi. Quanto al resto, son cazzi da cacare.

* la polemica sui numerosi presunti cambi di nome alle vie come rappresaglia per l’uscita della (in effetti superflua) guida Rockfax su Kalymnos è visionabile sulla pagina Facebook del Glaros Snack Bar, ricercando i post (e relativi commenti) da giugno ad agosto 2018

(foto tratta da Mountain Spirit Guides)

I_buoni_BonoVox_Louis_VuittonCome una gara va a fortuna, e si spera duri chilometri: è la vita che abbiam da consumare, assieme al battistrada.
Non ci facciamo mancare niente, neppure il televoto: chi vuoi eliminare, Andrada o Sharma? Sasha o Daila? Siamo climber o macchiette, atlete o starlette?
Dichiaro la schiavitù da consumismo ‘alternativo’ ufficialmente conclamata: inneggeremo alla vertical economy ed anzichè Il Sole 24 Ore leggeremo il Climbing Business Journal.

“(…) non parliamo di evasione. E’ assolutamente aliena da noi qualsiasi ipotesi che consideri la montagna come terreno di evasione dal sociale. Ci rifiutiamo di spingere la gente in montagna solo perchè si svaghi e rabberci in qualche modo le pecche di un sistema produttivo irrazionale.” (Roberto Mantovani, Rivista della Montagna n.50, 1982)

“La casa automobilistica e il brand multispecialista per gli sport di montagna hanno lanciato un concorso che premierà i consumatori più “attivi” con una fantastica giornata all’insegna dell’avventura.
“One Life to Live”, questo il nome del contest (…)
Il 5 settembre verranno estratti i vincitori degli Experience Days: un’intera giornata outdoor drive & climb. (…) Il tutto indossando il nuovo equipaggiamento ricevuto da ognuno dei partecipanti composto da giacca Zillertal GORE-TEX, t-shirt, pantaloni, zaino, imbrago e chalk bag”

Ne è passato di tempo da quando la pura passione era sufficiente a smuoverci dal divano verso uno scoglio o un bosco, ritrovandoci un po’ per forza e un po’ per caso fra accoliti – compagni di viaggio e di sentiero, nessuno veramente estraneo – pronti talvolta a dare vita anche in città ad un buco malsano in cui sfogare assieme un sentimento sotterraneo. La scalata stava già scivolando, per dirla alla Gobetti, “dal panorama al garage”, ma chiusi là dentro su noi stessi non ce ne saremmo potuti accorgere. Lentamente la passione s’incominciò a comprar coi soldi, “l’avere invase il campo dell’essere”, da Jonathan, dimensione avventura si passò alle fiere dell’outdoor ed il free climber si ritrovò con un orologione al polso piazzato sul mercato: non tutti i percorsi verticali sono uguali, quello originario era stato deviato. Complotti? Macchè, solo il maldestro tentativo di presentare una cosa per un’altra, potendola così meglio smerciare.
Da quando, in tempi più recenti, raduni e sagre dell’arrampicata tanto amichevoli quanto mercenari han preso piede, la strada che percorriam più di frequente è quella che ci porta al negozio; che non è più nemmeno la tappa fissa per la chiacchiera del Rockstore, dal momento che Finalborgo sembra diventata una specie di mini-centro commerciale.

Il concetto è chiaro, certi termini (per tacer degli inglesismi) vengono usati con disinvoltura: prima ancora d’esser praticanti, appassionati, amanti professionisti ed amatori, siamo visti e considerati tutti quanti in qualità di puri e semplici consumatori. Indi per cui esci, parcheggia e spendi, corri in montagna, arrampica consuma crepa!
Abbiamo insomma forse la risposta alla domanda che nei ’70 si poneva Gian Piero Motti: “Che cosa nasconde il formidabile aumento del numero delle persone che cercano la grande avventura in montagna?”
Quel che nasconde è quel che mostra: come le centinaia di cicche, di fazzolettini e di cartacce ai lati del sentiero, così in falesia al mare come sui bricchi in Val d’Aosta.
A voler rendere popolare la montagna, togliendole quel carattere elitario che non senza ragioni storiche talvolta viene denunciato, ci sta riuscendo paradossalmente proprio questo sistema mercantile. Ma invece di aprirla alle masse, gliela sta vendendo banalizzata: il che non corrisponde esattamente ad un passo avanti nella sfera dei diritti. Anzi, fa di più: quando vuole e può, con strafottente sfoggio filantropico, ce la regala.
Il pacco gara sta diventando un guardaroba intero, la dotazione completa dello scalatore; manca più soltanto l’assicuratore, non sia mai che lo forniscano assieme alla vettura. D’altronde non è nuovo il connubio commerciale: già abbiamo assistito all’impresa che Jeep & North Face fecero a Kalymnos, puntando su uno dei pochi luoghi ove si va a scalare a piedi, in bici o in scooter…poi a strizzarci l’occhio ci ha provato la Subaru.
Beati noi che abbiamo una vita da vivere (consumando), alla faccia degli sfigati che bombardiamo, che arrestiamo o che lasciamo annegare per punirli della colpa di non aver nulla da consumare. Altro che “sentimento “inclusivo””! Per quanto oggi alla portata di molti, la vacanza all-inclusive è exclusive per molti di più; e l’avventura e il viaggio veri li fan loro, noi fortunelli non siamo che servi di modelli e schemi preconfezionati e in qualche misura imposti: il Festival che riesce grazie ad una dieta “a base di prodotti italiani, (…) per “sentirsi a casa”” (porelli, confinati su Calimno e costretti ad ingozzarsi di calamari con la feta rischiavano il flop! Forse neanche il leghistalpinista sul Manaslu osò tanto), “la sacca porta magnesite che non può mancare nella dotazione di un climber”, altrimenti non sei nessuno…e guai a presentarsi in falesia con la mia squallida Punto grigia! “L’esperienza partirà con la guida della nuova BMW serie 2 Active Tourer per raggiungere la location in mezzo alla natura”, e che cos’è un climber sauvage senza BMW? Peggio di un rocker salvavite senza Louis Vuitton!

Sul rapporto fra i monti e il consumismo si sono espressi in forma critica diversi nomi celebri dell’alpinismo, da Messner a Camanni passando per Giovannini: sfidando l’idea servile di “un processo inevitabile perché tutto cambia”, proponendo “l’alpinismo come antidoto al consumismo e alla città globale”, e ricevendo l’ultimo una sequenza di commenti in rete tanto dementi quanto arroganti, da antologia della moderna inconsapevolezza.
Ma se l’alpinismo coi propri valori è duro a morire e ad esser trasformato, l’arrampicatore non ha scampo, è ormai spacciato.
L’“irreversibile degradazione” delle coscienze umane deformate dal potere dei consumi, già annunciata a suo tempo da Pasolini, è di fronte a tutti noi sotto forma di vera e propria “mutazione antropologica” che toglie senso al medesimo vendere e comprare, snaturandoli. L’inutile un tempo si conquistava, saggiamente poi ci si giocò; oggi lo compri un po’ per noia, un po’ per desiderio indotto e un po’ per ritrovarti comodo e integrato in sala boulder, dove ti muovi scaltro come al supermarket, in borsa o al casinò.
Ed io, che mi son sempre immaginato un climber privo di location, un contest senza winner? Potete anche pensarmi matto, ma mi sembra chiaro ormai che il business si sia ridotto all’abilità d’attrarre all’acquisto un climber, se non del tutto coglione, almeno un po’ distratto.

(foto tratta da Carmilla on line)

Pensare e ripensare ad arrampicare, stancarsi e riposare.

“all’inizio era l’entusiasmo, poi, a furia di ripetere la lezione, si è passati all’abitudine. È cosi! Sotto la parola «passione» vestiamo da carnevale la nostra incapacità di stare al mondo al tempo del presente.”

“Poi venne il tempo delle complicazioni. Riuscii a convincere alcune aziende di materiale per le scalate ad unire le loro forze. Giancarlo Tanzi, Gianni Bailo e Tono Cassin crearono un’operazione congiunta per parlare di free climbing. Perfino il Sole 24 Ore citò quell’evento. Ma forse in quell’occasione nacque il free climbing promozionale. Ci eravamo divertiti così tanto che nemmeno ci eravamo accorti di aver creato un mostro.”

“Alcuni si rallegrano di tale evoluzione.
Altri, no.”

Non l’avreste forse mai detto, ma nella scalata la fase della meditazione è assai importante.
Visti i tempi demenziali che corrono, potrei organizzare dei corsi di scalata introspettiva, emozionale, filosofica, coscienziale, e per buttarla in politica financo resistente (perchè tutto è Potere: anche se ti tieni abbestia o non ti tieni niente); sempre che a qualche altro furbacchione non sia già saltato in mente.

Arrampicare è approfondire la conoscenza di se stessi, intensificando l’autoconsapevolezza e riversandola nel mondo, specchiandovisi. E’ altresì fuga dal mondo civilizzato, conosciuto, amato e odiato, per rifugiarsi almeno qualche ora in una natura da riscoprire selvaggia e bendisposta, nè amica nè nemica, nè da sfruttare nè da temere, nè da idealizzare: semplicemente da rispettare, ritrovandovi una parte di sè e salvaguardandola.
E’, oltre a ciò, bicipite e avambraccio, scarpe strette, maglietta sudata, magnesite dappertutto, voglia di lottare impolverata, disegnata a casaccio sulle guance e sul naso. Tessera e allenamento, se si vuole. Competizione, per alcuni amanti di numeri, tempistiche, tabelle Excel, regole e schematismi. Per tutti ossessione, frustrazione, entusiasmo, soddisfazione. Analisi del problema, ricerca della chiave. Yoga, stretching, fisioterapista e trave. Gioco, fantasia, scoperta, libertà di scelta e d’azione. Completezza, ma anche contraddizione; sole ed ombra fra le umide pieghe di Cornei, naufragio a Kalymnos in mezza stagione. E’ la bellezza estetica unita alla coscienza e all’impeto del movimento. E’ la paura, e la capacità di trovarle da soli una propria soluzione.

Vorrebbero invece lorsignori, ma anche molti fra noi, che arrampicare rimanesse il solo non far altro che arrampicare: piede, mano e mano-piede, l’atto, il gesto, tutt’al più l’emozione. La continua, ossessiva, scimmiesca ripetizione. E poi la sua idealizzata rappresentazione.
Ma obbedire alla cieca passione è schiavitù; ed obbedire a una passione ormai fin troppo mediatizzata lo è ancora maggiormente. Quando l’arrampicata serve a pubblicizzare banche, cornflakes o panini, significa che qualcosa (pure troppo) è cambiato, e che nel tuo piccolo, gratuitamente, li stai un po’ pubblicizzando pure tu.

L’arrampicata esiste, accidenti!, e non si vedeva l’ora che venisse ufficialmente dimostrato… O forse no: poichè non tutti la pensavano proprio così. Perchè un conto è se la scalata attira – come un tempo – una certa vitale diversità (“per sentirci più “liberi” da quell’omologazione che sembrava serpeggiasse avida di proseliti, sì proprio quella che cantavano i CCCP: ”produci-consuma-crepa!””, come ricorda Giovanni Massari); tutt’altra roba invece se è la scalata a ritrovarsi modernamente modellata sulla base dell’omogeneità di vedute dominante, omologata a standard che la rendono asettica, vuota, stanca ed ansimante come l’ultimo concorrente. Una scalata per tutti trasformata in una pazzia edulcorata, in un passatempo buono per risolvere la noia cittadina, in un gioco a sè stante. Free climbing, rafting, bungee jumping. Quante maniere per svagarsi, quante!
Nonostante certe performance di rilievo assoluto, c’è chi la vede sofferente, se non morente addirittura. Cosa ho risolto o guadagnato, al di là del metro prettamente sportivo, se ho saltato qualche centimetro di più, alzato l’asticella, cambiato letterina (il che, pure, sembra ogni volta a ciascuno di noi tanto importante)? Se l’entusiasmo che trasuda è diventato ciclica ripetizione, emozione genuina ma anche insignificante, nuda e cruda? Se si sgobba o si rischia di crepare per sè o per lo sponsor, in questo o in altri sport, non mi è più chiaro da tempo. Se si voglia dimostrare a sè od agli altri qualche cosa, nemmeno. Quale limite possa e quale non debba essere invece superato, questo m’interessa. Trovare un equilibrio il più possibile continuo, come nel tempo trascorso in verticale. Dare tutto, non credere a niente ed a nessuno. La banalizzazione e commercializzazione di un’idea bizzarra, benchè umana – salire per il salire -, m’appare oggi come un qualche cosa d’intrusivo e inopportuno.
Resistono cocciute delle differenze, a dimostrazione che la scalata è forse davvero soprattutto sincero esperimento di reciproco confronto, patrimonio di conoscenza collettivo ed anche, talvolta, lotta fra Davide e Golia, in senso ostinato e contrario rispetto alle logiche comuni (“Svolgiamo un servizio quasi di pubblica utilità, senza pubblicità. Quindi non siamo un social network. Non c’è bisogno di iscriversi”); ma le forze che ci fagociteranno sono meglio organizzate.

Questo destino mi preoccupa in quanto mi ci trovo legato in maniera che suppongo quasi eterna; più della mia stessa fine forse mi terrorizza. Eppure è proprio il minimo rischio insito nella disciplina a garantire la distanza dalla normalità dei più, dalla ricerca ossessiva e pigra di confort e di sicurezza. Certo la tecnologia corre dove scappano i soldi, cosicchè non stiam più fermi alle piastrine rosa che si sfogliano, il che è evidentemente un bene per la sicurezza di tutti; ma neppure i fittoni con la resina sembrano stare incollati quanto Ondra, e comunque per andare a scalare a Finale dovevamo passare da sempre ogni volta sul ponte Morandi.
Forse l’arrampicata finirà quando saran finiti i sognatori, i cercatori di rocce e i loro adepti, i loro imitatori, i nuovi precursori; quando le masse preferiranno in massa il luna park e gli ascensori, e quanti andran per monti e per boschi verranno additati quali personaggi quantomeno loschi. Quando poi quella passione anche negli ultimi disperati si scoprirà affievolita e consumata, a restare attaccati alla pietra rimarranno solo i chiodi infissi, e tutti li guarderemo dal basso del nostro miserevole buonsenso pensando: quant’eravamo fessi.

Domanda truffaldina: se il candidato sindaco ci promettesse latrine Sebach e posti auto dappertutto sul territorio arrampicabile locale, contribuire a farlo eleggere sarebbe un bene o un male?
Risposta sbarazzina: lo spirito corporativo del climber moderno mi pare un gran brutto affare.

“Negli anni ’90 c’era fermento politico attorno alle rocce che fino ad allora erano state frequentate e attrezzate esclusivamente dagli appassionati. Ogni ente locale non si era mai spinto neppure alla base delle pareti per capire e i ciclisti erano di là dal venire, ma il comitato di personaggi locali che si era costituito voleva entrare a gamba tesa nelle faccende dei climbers. Bisognava fronteggiarli dando una certa credibilità agli scalatori che presto si sarebbero seduti al tavolo della prima riunione con assessori, imprenditori locali e azzeccagarbugli d’ogni sorta. (…)
Ci dava molto fastidio che quelli che fino a pochi giorni prima avevano ignorato scalata e scalatori, volessero improvvisamente entrare nel nostro mondo senza conoscerne le regole mai scritte, solo perché si erano accorti che rappresentavamo un business e un’ottima alternativa invernale ai bagnanti.”
(Marcello Cominetti)

“il fenomenale incremento di fruizione dell’arrampicata sportiva sta producendo cambiamenti imprevedibili. Da grandi opportunità a grandi disastri. La comunità arrampicatoria non può rimanere disgregata e senza voce, semplice spettatrice passiva delle singole originalità politiche. (…) Non si può avere una totale assenza di interlocutori istituzionali per l’arrampicata sportiva verso gli amministratori pubblici. Il movimento non può continuare a rimanere slegato e senza riferimenti.”

“Chi amministrerà il comune per i prossimi 5 anni?
Finale diventerà veramente una capitale dello sport outdoor come è scritto sui cartelli stradali?
Alle prossime elezioni 5 liste in lizza e 5 potenziali sindaci.”

“Chi vota convinto di poter cambiare qualcosa, sia a livello locale, nazionale o continentale è solo un illuso, per non dire altro.”

Ancora qualche ragionamento di ordine morale a partire dal noto pasticciaccio finalese, divenuto ormai una questione di pura politica e di rinnovata partecipazione democratica, altrimenti detta: un fatto di mera (diretta od indiretta) convenienza. Comprensibile e ragionevole è che ci si interessi collettivamente al destino di una attività tanto importante per il territorio; meno entusiasmante giudico che una passione di fuoco si possa ridurre all’atto moribondo della deposizione di un’anonima X nell’urna mortuaria-elettorale, per il solo proprio tornaconto categoriale, senz’altro interesse che non sia legato al movimento di denaro e di risorse in verticale.
Quali “servizi e infrastrutture” servano, peraltro, non mi è chiaro. A parte rari casi (lo strafrequentato vallone di Monte Sordo soprattutto), il parcheggio non è mai stato un problema. Al cesso so come e dove andare senza far danno, e ritornando anzi coi rifiuti altrui. Di negozi specializzati è piena Finalborgo, sono pure troppi: da borgo storico con qualche vetrina è diventato un centro commerciale a forma di paesino. Il Finalese non è la Sardegna, nè Kalymnos: non si muore di fame, nè ci mancano le strutture su cui arrampicare. Se siamo ridotti ad elemosinar fittoni è solo perchè non siam mai stati comunità reale, e siamo cari a chi ci deve in qualche modo guadagnare. Credere che la politica, ancorchè a livello locale, possa servire a qualcosa è non solo illusorio ma fasullo; specialmente dopo decenni di cartellonistiche danneggiate, targhette rotte e gomme bucate. Capisco il tentativo di ricerca di un minimo di serietà e di trasparenza, non accetto l’aggrapparsi fiducioso e acritico alle parole e alle promesse; una cosa è il dialogo con un interlocutore inevitabile, altra cosa l’affidamento speranzoso od utilitaristico alle solite parole, sempre le stesse. Il nostro è (era, sarebbe, speravo fosse) un mondo in qualche modo altro rispetto al solito teatrino in cui invece anche noi oggi, volenti o nolenti, ci siamo ritrovati. Possibile che ancora non ci si sia stancati delle polemiche, delle parole grosse, delle noiose schermaglie che questi figuri ottimi nell’interpretazione attoriale continuano a praticare, sostenuti finanziariamente da strutture di potere nei confronti delle quali non osiamo dire né aba? Davvero a questo ci siamo ridotti, a questo modello di democrazia medioevale in base al quale converrebbe ingraziarsi il politicante, ancorchè coglione, che ci promettesse in via caritatevole l’elargizione di qualche doblone?!

Comprendo lo spaesamento che si prova nel ritrovarsi impotenti e disuniti dinanzi a scelte incomprensibili da parte di forze incontenibili, ma non riduciamoci a ragionare soltanto in soldini, che non sempre riceveremo, od aiutini per averla sempre vinta; piuttosto, in soldoni, una occasione mi sovviene in cui l’intervento delle istituzioni può tradursi in impegno sostanziale, ed è quando il moderno climber si fa male. A Kalymnos, ultimo scampolo di presunta civiltà, si sono autorganizzati volontari locali, con mezzi ridottissimi e reciproca soddisfazione; nel terzo mondo chiamato Liguria, invece, ho assistito personalmente a scene penose di pesanti aiutanti sperduti arrancanti sui sentieri e soprattutto all’annosa polemica (non ancora conclusa, nonostante la pressione sindacale) sugli elicotteri contati con due dita di una mano, con tutto lo strascico che ne consegue, fra denunce di tagli ai servizi pubblici e maliziose opportunità di privatizzazione, le indagini affidate ad un Procuratore, e l’infortunato contribuente lì acciaccato ed imbragato ad aspettare ore.

Per la cronaca (a dire il vero un po’ datata): circa due anni fa i cittadini di Finale Ligure sono stati chiamati alle sacre urne per le elezioni comunali, ed è stato riconfermato il sindaco già in carica, candidato con una lista civica ufficialmente “da sogno e apartitica”, in realtà appoggiata dal Partito Democratico, il solito incubo. Per quanto fossero alte le aspettative, e per altre attività boschive non manchino i fondi, sembra un dato di fatto che nessuno si degni d’interessarsi all’arrampicata sportiva. Non mi rammarico di ciò, nè mi stupisco che i soldi finiscano a spostarsi decisamente più verso la riva.
Solo, a chi ancora ci sperava dico: per questa volta passi…ma non mi si venga poi a spiegare che la politica non c’entra coi sassi.

(foto tratta da Savonanews)

No Limits

Volete scalare ma non potete uscire dal Comune? Siete finiti malvolentieri e già imbragati in zona arancione? Il vostro rappresentante ha pronta per voi la soluzione. Per la serie: non è mai troppo tardi (o forse sì?). Meglio tardi che mai? Pensatela un po’ come vi pare.
Sullo sfondo una storia underground, ma vista mare.

“i traversi si facevano a Punta Vagno, alla Foce.”

“…se facciamo una bella petizione?”

Proprio ieri il consigliere comunale di Fratelli d’Italia Valeriano Vacalebre ha compiuto 43 anni. Celebriamo tale coincidenza approfittandone quale scusa per interessarci a una notizia vecchia di qualche mese, che agli occhi esperti dei cultori della scalata vintage tipica degli ’80-’90 non sarà passata inosservata. Quale? Questa.

Appartenente alla cosiddetta “destra sociale”, Vacalebre ha iniziato la carriera con AN, dedicandosi particolarmente al territorio. Nel 2018 dichiarava che “Lo sport e gli impianti sono per noi un problema molto serio”. L’anno successivo in effetti si è occupato di piste ciclabili, ed oggi – dopo il misterioso passo falso di un più moderato collega totiano – eccolo alle prese (è il caso di dirlo) con una parete, o meglio “palestra di roccia”.
Dal documento ufficiale qui visionabile apprendiamo infatti dell’esistenza di una “falesia” rocciosa nel quartiere genovese della Foce: il riferimento è invece chiaramente al caro vecchio muraglione di Punta Vagno (Giardini Govi), su cui più generazioni si sono allenate sotto lo sguardo stupito dei passanti, tracciando percorsi in traverso, in compagnia od in solitaria, scavando o modellando appigli, incollando prese artificiali e addirittura chiodando itinerari spittati (oramai impraticabili, e suppongo aperti alla faccia di qualsivoglia regola), sino all’avvento delle moderne palestre indoor. Ne testimoniano l’importanza numerose storie personali più o meno celebri, come quella di Marco Codebò (“Non esistevano i pannelli per allenarsi, si andava a “punta Vagno””) o quella della più giovane Daniela Feroleto (“Abbiamo iniziato (…) a muovere i primi passi sui traversi di pietra dei giardini Gilberto Govi a Genova quando ancora non esisteva nemmeno una palestra indoor in città!”). Erano i tempi in cui ci si riconosceva simili tramite un’occhiata, appartenenti a un qualche cosa di comune seppure senza tessera od assicurazione.
Dopo anni ed anni di avventurosa e liberissima autogestione, ora della struttura si ipotizza, post-riqualificazione, un utilizzo forse più – come dire – autorizzato e controllato (od evoluto, o privatizzato?) rispetto a quello odierno e che fu, anche se non è ben chiaro cosa s’intenda con espressioni quali “parete attrezzata”
La sua base è stata adibita frattanto a posteggio, dopo un periodo di transizione in cui si ottenne addirittura dal Comune l’affissione di appositi cartelli di divieto di sosta con scritto sotto qualcosa come “lasciare libero, passaggio arrampicatori”: a ripensarci oggi vicende quasi incredibili, storie sotterranee di trazioni all’aria aperta in una zona che, peraltro, non è bene lasciare deserta; e perciò anche storia, in fondo, del recupero involontario di un’area urbana di confine, che passava attraverso la buffa attività sportiva di giovanotti un poco ‘fuori’.

Diciamo la verità: che sarà di questo presunto progetto non si sa, e non si può escludere a priori l’ipotesi migliore. Ma sono secoli che si pensa a cosa fare dei giardini Govi e degli spazi limitrofi: ne è stato versato d’inchiostro, di magnesio e di sudore. Alcuni impianti sportivi a dire il vero ci son già; con un ritardo di alcuni decenni, senza troppo sforzo, e forse solo grazie al Covid, viene curiosamente riscoperto anche il nostro muro (non da Repubblica che per “arrampicata a mani nude in strada” intende il più moderno parkour…).
Conservo e riguardo con nostalgia fotografie che mi ritraggono assieme agli amici mentre scivoliamo di tacca in tacca sulle scritte a spray pro-Palestina e sulle falci e martello. Erano bei tempi quelli sotto molti aspetti. Oggi che la destra pretende di fare cultura, anche attraverso lo sport, nel mentre che inneggia a patrioti e patriottismi (ma al contempo coltiva, col leghismo, localismi ed indipendentismi), sarebbe da respingere l’offensiva e ridicola proposta al mittente. Soprattutto dopo aver attentamente valutato come il più volte autodefinitosi “sindaco di tutti” ed il suo degno compare stiano contribuendo a spostare gli equilibri politici locali sempre più a destra, con punte di appoggio all’estremismo più inquietante.
Sebbene il “giornalista-galantuomo” berluscomico Lussana definisca Bucci “un gigante, che travalica schieramenti e appartenenze, coinvolgendo persone che non voterebbero centrodestra nemmeno se l’alternativa fosse il taglio della mano”, ci vorrebbe un cieco per non accorgersi dell’agibilità politica di cui hanno goduto in città entità e gruppuscoli fra il revisionismo e il neofascismo negli ultimi anni, come dimostrano le numerose polemiche sorte perfino in seno alla stessa maggioranza.

E comunque, al di là di tutto questo (“more than this”, per l’appunto, come recita lo slogan del rilancio genovese), qualcuno vuole sapere come andò che il muro divenne un luogo di ritrovo per appassionati ai tempi di Manolo, della Sector e dei suoi No Limits?

E’ piuttosto semplice: essi vi andarono e si arrampicarono.

(foto tratta da Genova3000)

A bordo strada

Checchè se ne pensi, l’arrampicatore non è quello che fa, quello che chioda, quello che sale, o quel che dice, o scrive, o quel che crede d’essere.
L’arrampicatore non è neanche l’auto o mezzo di locomozione che utilizza – il furgone per i forti, il motorino per i local, la bicicletta per gli ecologisti – rendendolo climber-tartaruga o climber-scheggia.
No.
L’arrampicatore è il luogo in cui parcheggia.

Sono finiti i tempi in cui abbandonavo l’auto a bordo strada per salire a Tenda, là dove La parola si lascia ai testimoni…e se salti una presa sikata non sai più se hai fatto giusto il tiro. Simili meschinerie le lascio oggi a chi ancora si tiene aggrappato ad un livello che non mi si addice, nonchè allo stress e alle storture ad esso connesse, che fan talvolta sì che più sei in forma e più pari infelice.

Non saprei neanche dove trovare un buco per salire al Grotto di Perti, ma soprattutto adesso non saprei cosa andarci a fare, visto che sotto al 6c c’è solo da scavare.

Ci s’è messo in mezzo pure il virus a scombinar le carte e le certezze.
Appena finito il lockdown la Cava di Toirano era una selva di automobili come ai bei tempi andati, con gli ultimi arrivati che fuggivano a cercare mete alternative…ma la falesia risultava in realtà semideserta, visto che a ogni macchina corrispondeva un solo essere umano.

Oggi lasciamo l’auto timorosi al principio del vallone di Monte Sordo, per raggiungere con percorso tortuoso l’agevole e popolare Kaimano.
Quando si poteva, sceglievamo posti fuori mano, dimenticati dai più e talvolta anche da Dio, che non so neppure io come ci siam finiti.
Viceversa, siamo ora costretti alla ricerca di soluzioni agibili per i meno arditi, e se possibile che sia facile pure il parcheggio stesso: ragion per cui le falesie migliori risultano esser quelle a bordo strada, o con parcheggio annesso; mentre i big osano avventurarsi per sterrate, sgommando ghignanti su terreno ripido e sconnesso. A Montestrutto, insomma, mi son ritrovato più volte che a Pian Bernardo, lo confesso.

Ho idea che un domani quest’attitudine turistica priva del solo parcheggiatore (la compagna finora svolge bene questo ruolo) potrà lasciare il passo a una visione nuova, o meglio rinnovata dalla presenza di un piccolo scalatore.
Scegliere finalmente un pezzetto di suolo ove fermarsi per non limitarsi più ai soliti gradini ridicoli, ma per puntare ancora in alto come prima. Smettere causa ritrovato acciaio di scrivere scempiaggini in rima.
Forse scalerò ancora forte assieme a lui, esplorando nuovi beta; o non scalerò nemmeno più, ed allora chissà quale sarà la nuova meta: le ipotesi son tante.
Tant’è, in cuor mio sogno un parcheggio un pochettino più arrogante.

(foto tratta da Climblive Blog)

Renitente

“lo sdegno era di pancia e si potrebbe riassumere in una parola: conformismo. Sicuramente mi disturbava essere guardato, probabilmente ero invidioso di chi scalava meglio, ma il punto stava in quel farlo tutti alla stessa maniera, con gli identici vezzi e le abusate frasi, senza spirito critico. L’omologazione era davvero insopportabile.” (Enrico Camanni, Verso un nuovo mattino – La montagna e il tramonto dell’utopia)

Tutto alla rovescia, sempre controcorrente.

Cosa è cambiato dai tempi dello scritto anti-circense di Camanni (Il circo, Rivista della Montagna, 1982) a quelli dei raduni odierni (prima climbing marathon del Finalese, 2012)? Qualcosa di sicuro, forse molto, ma sostanzialmente…

Ai tempi di Finale capitale (dell’outdoor), coi suoi sentieri e vicoli invasi da climbers e biciclette, può rivelarsi un’apprezzabile esperienza quella di tentare di evitare d’incontrare anima viva, essendosi tramutati gli ex-turisti alternativi in cavallette.

Con gli amici spesso ci domandiamo come sia possibile recuperare oggi ancora un po’ di quella solitaria wilderness che caratterizzava i bei tempi andati, quelli che vennero prima dei fittoni resinati, quando era una passione misteriosa e insana quanto nobile quella che spingeva il chiodatore a spargere placchette in ogni dove, mentre oggi è tutto uniformato alle esigenze di un sistema modellato sul consumo, nascono falesie come supermarket mentre un tempo, alla bisogna, erano alcove.

Non è per facile misantropia che uno ricerca un po’ di pace, quanto per recuperare un minimo rapporto elementare con un mondo che un po’ ci è stato e un poco abbiamo trasformato; per poter toccare ancora con mano la realtà concreta, calpestare le foglie come le attraversa un bimbo, percepire la roccia calda o fredda o l’erba sotto ai piedi.
Oggigiorno è più facile ritrovarsi in un cacatoio al margine della falesia, o fra i rifiuti laddove inizia il bosco: tra fazzoletti, cerotti per le dita, cicche di sigarette, confezioni di barrette ed altri scarti che oramai conosco.
Non vi è forse altro modo per trovare nuove energie positive al termine d’una grigia settimana che ricercare il contatto con la natura assieme alle poche persone cui si vuole bene, pre(te)ndendo finalmente il proprio posto e al tempo stesso posizione: per una forma giocosa di auto-liberazione, per un rinnovato rispetto e una modesta difesa dell’ambiente, per un ritrovarsi umanità che sa perchè sta al mondo anzichè farsi massa al pascolo, che non ambisce a niente.

Così, conto le volte che in falesia gioco alla scalata e al renitente. Con il cuore rivolto nostalgico al passato, un occhio spaventato al futuro e l’altro fisso come un chiodo sul presente. Sognando strabico di non dover pagare più autostrade che crollano, vino con i moscerini, 50 euro di guida superfiga che per tot pagine mente. Sognando altresì calcare non più unto, ma che ho contribuito a rovinare anch’io, ed un ambiente umano che senza troppi sforzi possa avvertire più vicino, mentre me ne allontano. Curiose contraddizioni, che costruisco piano piano.

Dei luoghi che oggi restano più solitari non vi dirò nulla: è tempo che la gente inizi a sbattersi per trovarli, se proprio lo vuole. Che impieghi il tempo necessario per conoscere il posto dove si muove, che sbagli (come nella migliore tradizione finalese), che si perda in val di Nava od a Cornei per riscoprirsi finalmente solo e consapevole, proprietario d’una sapienza che non vale nulla se non fra queste frasche, dove riconosci il sasso e anche l’arbusto e la cosa ti fa stare sorprendentemente, inutilmente bene.

A pensarci meglio sono proprio tante le occasioni in cui abbiamo scalato in coppia nel silenzio, financo di recente; così da potersi domandare ancora, assai diversamente: “Ma questo posto è Finale?”.
Che altro vi posso dire, confidenzialmente, senza far bene nè male? Se va di moda il lungo scegli il corto, se esce l’articolo sulle riviste vai altrove…piuttosto resta chiuso in casa od al pannello con il sole, e scala quando piove!
Scherzi a parte: non inseguire le novità decantate e commercializzate, dai tempo al tempo ed alla roccia di pulirsi, ai gradi di confondersi e di contraddirsi, agli entusiasmi altrui di affievolirsi; al classico ritrovo mattutino chiedi curioso dove abbia intenzione di mettersi in coda l’altra gente, poi dileguati senza dire niente.

Tutto alla rovescia, sempre controcorrente.

(immagine tratta da Outdoor Passion)