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Posts Tagged ‘normalità’

Dal vostro corrispondente low cost (diciamo pure volontario) da Kalymnos.
Il vento è furibondo. Il clima è incendiario.

“Who set the world on fire?/It was me, I set the world on fire” (Stick Figure, da World on fire)

“Le vacanze sono un momento curioso in cui tutto sembra fermarsi e invece tutto continua ad esistere. (…)
I nostri piccoli cervelli hanno difficoltà a far convivere le nostre preoccupazioni personali con le infinite sofferenze degli altri. Ci sdraiamo tranquillamente sulla spiaggia e altri invece in quello stesso momento stanno morendo, uccisi e violentati.”

“L’estate dovrebbe essere usata per riflettere sulla propria condizione e sul mondo, per arrivare al fondo delle cose e non per stupirsi”

La guerra andrà mai in vacanza? Frattanto, da sempre, le guerre ci arricchiscono, permettendoci le vacanze. Problemi etico-morali da porsi? Nessuno. Anzi, come insegna Toti, ce lo rivendichiamo con orgoglio di costruire e commerciare cacciabombardieri e droni-killer, perchè non dimentichiamo che “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” (senza ulteriori valutazioni di merito), e i sindacati in generale son contenti di non dover fare battaglie anche su questo. Un po’ di simbolica vernice dei soliti noti sanziona qua e là il losco malaffare che definiamo la nostra normalità, dopodichè possiamo rilassarci fra ridicoli selfie e un (anti?)conformismo trash. Al climber medio(cre) per esempio, per trovar conferma del proprio insostituibile ruolo sociale, basta raccontarsi la favoletta dell’arrampicatore buono che, senza alcuno sforzo, semplicemente svagandosi, salva il culo all’economia isolana del poveraccio greco rifornendolo di cash. Facile fare del bene al mondo così, da mezzi ricchi, accontentandosi di una forma di redistribuzione del reddito a sola nostra cura, ovvero da parte di altri poveracci un poco meno poveracci di altri; serve a togliere dall’orizzonte qualsiasi fantasia di reale cambiamento dello stato presente delle cose, oltre a sciacquarci comodamente la coscienza. Abbiam lasciato che di rivoluzionario restassero detersivi e dentifrici, mentre andare in vacanza al risparmio sentendosi facoltosi ed al contempo pure benefattori dà una sensazione autoassolutoria non da poco – anche se rischia di fare incazzare qualcun altro. Continua ad andare tutto bene nel migliore dei mondi possibili, e nel mentre rimugino sui miei dannati resting scorrono mescolandosi agli appigli e alla retsina le immagini del quartiere di Exarchia illuminata dalle molotov ad Atene. Cosa vorrà ‘sta gente, mah, chissà. La risposta la trovo alla Baia dei Pirati, dove le giornate scorrono lente sulle note di World on Fire degli Stick Figure. Acqua davanti a me, fuoco nell’aria, e tutt’attorno roccia. Tant’è, a questa turistica pienezza manca ancora e sempre qualcosa. Non più la performance, divenuta utopia più delle mie idee; non il tempo, non il cibo, e neppure il respiro, che percepisco intensamente mentre faccio il morto a Palionisos Bay. Manca la serenità di un’epoca che non c’è più e forse non è mai esistita, dal momento che le cose peggiori ci son sempre successe tutt’attorno o addosso senza che potessimo evitare di sentirci impotenti o ininfluenti, anche se oggi ti fan credere di poter salvare il mondo acquistando un pacco di biscotti. Voglio scendere in piazza non per l’Ucraina, con la bandierina colorata, ma per gli ucraini, per quelli che non si arrendono all’evidenza; e non contro la Russia, bensì per i russi, per quelli che non si rassegnano all’obbedienza. Ma se sull’isola riescono a litigare perfino fra chiodatori – inglesi, autoctoni, francesi! * Non lo so, tutto sembra tanto semplice in teoria che viene effettivamente il dubbio di stare a banalizzare qualcosa di assai più complicato nella pratica, come quando guardo un itinerario impegnativo dal basso ed ipotizzo strafottente un 6b+. Ma se l’arrampicata ci trascina più d’ogni altra passione puerile o civile è un po’ anche perchè in quell’ambito è forse ancora possibile fare ciò che si desidera con senso di responsabilità per gli altri e assieme soddisfazione personale. La gratificazione di ogni piccolo sogno che diventa faticosamente realtà condivisa resta impareggiabile, mentre tutt’attorno regnano l’imperscrutabilità e l’inganno, il disagio e l’imbarazzo, l’ipocrisia e la confusione, la vergogna ed il dolore. Per cosa si vive? Per cosa si muore? Non siamo più abituati alle domande basilari, che per altri sono ancora peggiori. Lo scalatore che nei ’70-’80 ha sfiorato ardimentosamente il rischio massimo con le solitarie forse sa un po’ meglio di cosa si tratti, ma oggi che è diventato tutto un immenso videogame il rischio, ribaltato, è quello di rendere un gioco persino l’orrore.
Fra continue ansie e ciclici terrori penso che siamo tutti decisamente sempre più fuori, ma cerchiamo di starci dentro ancora un pochino. Recuperiamo le condizioni base per il nostro ed altrui benessere, senza troppo esigere ma senza neanche rassegnarci al meno peggio, od al peggio direttamente. No, non voglio consigliarvi che cosa votare o non votare, nè di iscrivervi ad un altro corso di yoga, che male non può fare, ma neppure vi curerà davvero, se non tramite una meditata distrazione rispetto allo stare concretamente a questo mondo. Rimettersi a posto con la schiena dopo una settimana di scalata è anche un mio problema, ma è restare con la schiena dritta e a testa alta nel resto del tempo il problema più pressante, visti i tempi cupi che si prefigurano.

Comunque, giusto per dare un senso al titolo, sennò che cosa vi siete letti questo ennesimo pippone grimpolitichese a fare: sebbene la foto sia stata scattata dall’ottimo Panos, quello presentato magistralmente dalla Aegean Tavern resta il saganaki cheese più spettacolare, non ci son cazzi. Quanto al resto, son cazzi da cacare.

* la polemica sui numerosi presunti cambi di nome alle vie come rappresaglia per l’uscita della (in effetti superflua) guida Rockfax su Kalymnos è visionabile sulla pagina Facebook del Glaros Snack Bar, ricercando i post (e relativi commenti) da giugno ad agosto 2018

(foto tratta da Mountain Spirit Guides)

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Pensare e ripensare ad arrampicare, stancarsi e riposare.

“all’inizio era l’entusiasmo, poi, a furia di ripetere la lezione, si è passati all’abitudine. È cosi! Sotto la parola «passione» vestiamo da carnevale la nostra incapacità di stare al mondo al tempo del presente.”

“Poi venne il tempo delle complicazioni. Riuscii a convincere alcune aziende di materiale per le scalate ad unire le loro forze. Giancarlo Tanzi, Gianni Bailo e Tono Cassin crearono un’operazione congiunta per parlare di free climbing. Perfino il Sole 24 Ore citò quell’evento. Ma forse in quell’occasione nacque il free climbing promozionale. Ci eravamo divertiti così tanto che nemmeno ci eravamo accorti di aver creato un mostro.”

“Alcuni si rallegrano di tale evoluzione.
Altri, no.”

Non l’avreste forse mai detto, ma nella scalata la fase della meditazione è assai importante.
Visti i tempi demenziali che corrono, potrei organizzare dei corsi di scalata introspettiva, emozionale, filosofica, coscienziale, e per buttarla in politica financo resistente (perchè tutto è Potere: anche se ti tieni abbestia o non ti tieni niente); sempre che a qualche altro furbacchione non sia già saltato in mente.

Arrampicare è approfondire la conoscenza di se stessi, intensificando l’autoconsapevolezza e riversandola nel mondo, specchiandovisi. E’ altresì fuga dal mondo civilizzato, conosciuto, amato e odiato, per rifugiarsi almeno qualche ora in una natura da riscoprire selvaggia e bendisposta, nè amica nè nemica, nè da sfruttare nè da temere, nè da idealizzare: semplicemente da rispettare, ritrovandovi una parte di sè e salvaguardandola.
E’, oltre a ciò, bicipite e avambraccio, scarpe strette, maglietta sudata, magnesite dappertutto, voglia di lottare impolverata, disegnata a casaccio sulle guance e sul naso. Tessera e allenamento, se si vuole. Competizione, per alcuni amanti di numeri, tempistiche, tabelle Excel, regole e schematismi. Per tutti ossessione, frustrazione, entusiasmo, soddisfazione. Analisi del problema, ricerca della chiave. Yoga, stretching, fisioterapista e trave. Gioco, fantasia, scoperta, libertà di scelta e d’azione. Completezza, ma anche contraddizione; sole ed ombra fra le umide pieghe di Cornei, naufragio a Kalymnos in mezza stagione. E’ la bellezza estetica unita alla coscienza e all’impeto del movimento. E’ la paura, e la capacità di trovarle da soli una propria soluzione.

Vorrebbero invece lorsignori, ma anche molti fra noi, che arrampicare rimanesse il solo non far altro che arrampicare: piede, mano e mano-piede, l’atto, il gesto, tutt’al più l’emozione. La continua, ossessiva, scimmiesca ripetizione. E poi la sua idealizzata rappresentazione.
Ma obbedire alla cieca passione è schiavitù; ed obbedire a una passione ormai fin troppo mediatizzata lo è ancora maggiormente. Quando l’arrampicata serve a pubblicizzare banche, cornflakes o panini, significa che qualcosa (pure troppo) è cambiato, e che nel tuo piccolo, gratuitamente, li stai un po’ pubblicizzando pure tu.

L’arrampicata esiste, accidenti!, e non si vedeva l’ora che venisse ufficialmente dimostrato… O forse no: poichè non tutti la pensavano proprio così. Perchè un conto è se la scalata attira – come un tempo – una certa vitale diversità (“per sentirci più “liberi” da quell’omologazione che sembrava serpeggiasse avida di proseliti, sì proprio quella che cantavano i CCCP: ”produci-consuma-crepa!””, come ricorda Giovanni Massari); tutt’altra roba invece se è la scalata a ritrovarsi modernamente modellata sulla base dell’omogeneità di vedute dominante, omologata a standard che la rendono asettica, vuota, stanca ed ansimante come l’ultimo concorrente. Una scalata per tutti trasformata in una pazzia edulcorata, in un passatempo buono per risolvere la noia cittadina, in un gioco a sè stante. Free climbing, rafting, bungee jumping. Quante maniere per svagarsi, quante!
Nonostante certe performance di rilievo assoluto, c’è chi la vede sofferente, se non morente addirittura. Cosa ho risolto o guadagnato, al di là del metro prettamente sportivo, se ho saltato qualche centimetro di più, alzato l’asticella, cambiato letterina (il che, pure, sembra ogni volta a ciascuno di noi tanto importante)? Se l’entusiasmo che trasuda è diventato ciclica ripetizione, emozione genuina ma anche insignificante, nuda e cruda? Se si sgobba o si rischia di crepare per sè o per lo sponsor, in questo o in altri sport, non mi è più chiaro da tempo. Se si voglia dimostrare a sè od agli altri qualche cosa, nemmeno. Quale limite possa e quale non debba essere invece superato, questo m’interessa. Trovare un equilibrio il più possibile continuo, come nel tempo trascorso in verticale. Dare tutto, non credere a niente ed a nessuno. La banalizzazione e commercializzazione di un’idea bizzarra, benchè umana – salire per il salire -, m’appare oggi come un qualche cosa d’intrusivo e inopportuno.
Resistono cocciute delle differenze, a dimostrazione che la scalata è forse davvero soprattutto sincero esperimento di reciproco confronto, patrimonio di conoscenza collettivo ed anche, talvolta, lotta fra Davide e Golia, in senso ostinato e contrario rispetto alle logiche comuni (“Svolgiamo un servizio quasi di pubblica utilità, senza pubblicità. Quindi non siamo un social network. Non c’è bisogno di iscriversi”); ma le forze che ci fagociteranno sono meglio organizzate.

Questo destino mi preoccupa in quanto mi ci trovo legato in maniera che suppongo quasi eterna; più della mia stessa fine forse mi terrorizza. Eppure è proprio il minimo rischio insito nella disciplina a garantire la distanza dalla normalità dei più, dalla ricerca ossessiva e pigra di confort e di sicurezza. Certo la tecnologia corre dove scappano i soldi, cosicchè non stiam più fermi alle piastrine rosa che si sfogliano, il che è evidentemente un bene per la sicurezza di tutti; ma neppure i fittoni con la resina sembrano stare incollati quanto Ondra, e comunque per andare a scalare a Finale dovevamo passare da sempre ogni volta sul ponte Morandi.
Forse l’arrampicata finirà quando saran finiti i sognatori, i cercatori di rocce e i loro adepti, i loro imitatori, i nuovi precursori; quando le masse preferiranno in massa il luna park e gli ascensori, e quanti andran per monti e per boschi verranno additati quali personaggi quantomeno loschi. Quando poi quella passione anche negli ultimi disperati si scoprirà affievolita e consumata, a restare attaccati alla pietra rimarranno solo i chiodi infissi, e tutti li guarderemo dal basso del nostro miserevole buonsenso pensando: quant’eravamo fessi.

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