Dopo le mutande dalla testa, stan cercando adesso di farci passar le calze dalle braccia. Riviste e siti specializzati si limitano a sollevare dubbi, ma possono star tranquilli: compreremmo di tutto comunque, con o senza minaccia.
“arme fatale ou gadget marketing? Mythe ou réalité?”
“accessoires indispensables pour prolonger le plaisir de l’escalade ou gadgets superflus?” (da EscaladeMag n.22, gennaio 2009)
“”suvvia, non statevene lì indecisi, aderite all’appello delle Superiori Autorità, correte ad acquistare nuovi gadget e surrogati. (…) Incoraggiate la produzione di ciò che di più vano si può consumare. (…) il capitalismo va aiutato!””
“Ci eravamo divertiti così tanto che nemmeno ci eravamo accorti di aver creato un mostro.” (Franco Perlotto, da Montagne 360° – Ci fu un tempo in cui lo chiamammo free climbing)
“gli sport estremi sono diventati di rigore per i top manager” (D Repubblica – Il buon CEO ha muscoli d’acciaio)
“Il Nuovo Mattino è tardo pomeriggio” (Enrico Camanni, Alpi ribelli)
S’era da poco scoperta l’ennesima brutta figura dei “falliti” quando qualcuno pensò ad una riscossa.
Erano i primi climbers “angeli strambi”, nati per essere liberi, pazzi visionari, merce rara. Che cosa siamo diventati, o stati fatti diventare? Pagliacci disagiati, superuomini in carriera, od omologati e comunissimi consumatori: in coda col numero di nuovo, come già fummo in gara.
E come finiremo? Scaleremo presto con il marchio dello sponsor tatuato sulla schiena, a distinguere il livello sociale di chi ce l’ha e chi non ce l’ha. Sulla base dei tiri dichiarati fatti tramite scorecard sarà valutata la nostra dignità. Venderemo l’anima al diavolo per un 8a, un 7a, un 6a. Chi lo sa dove finiremo. So soltanto che non sono ancora diventato tanto scemo da farmi suggerire a ogni stagione cosa sia meglio fare per diventar più bello, più forte, più performante, più sano…più coglione. So che stanno tentando di venderci un essere umano prodotto in serie e pronto a pensare in serie; un progetto allarmante, devastante, disumano. Un burattino tecnologicamente avanzato che si scambia in tempo reale aggiornatissimi consigli su falesie e appigli, che si mette alla prova in sempre nuovi cimenti e allenamenti, e che in qualsiasi pubblicità s’imbatta la valuti in base ai buoni sentimenti. Think pink? Non più. Think less, climb more: e lasciati alle spalle il tempo perso a vagare al Camp 4, o a giocare al no war. Non è quella la libertà selvaggia che ti hanno garantito: essa riguarda solo le apparenze, il tuo profilo Fb, l’accessorio trendy od il vestito.
Quanto criticone sono: se non hai provato il prodotto, come puoi parlarne male?
Per la stessa ragione per cui per scalare non abbisogno (ancora) di scale. Perchè, anche se ormai i nostri Nuovi Mattini hanno inizio verso mezzogiorno, riconosco in certo marketing ed in certa stampa di settore (da esso dipendente) un progetto diverso – benchè identificato con lo stesso nome – che fagociterà ben presto la nostra comune passione, trasformandola in qualcosa d’altro attraverso l’assorbimento di nuovi presunti valori e l’abbuffata di video mozzafiato con trame giovaniliste, suoni stordenti e dai magnifici colori. Esiste invece, o deve esistere, io sostengo, uno spiraglio ribelle e alternativo che spacchi il confine fra turismo ed alpinismo tracciato saggiamente da Messner: una dimensione tutta da guadagnare, in cui possa trovar posto una saldatura – che in fondo ancora (r)esiste – fra i fasti dell’alpinismo, se non eroico, diciamo almeno di serie A e l’arrampicata non ancora scaduta nella ricerca del pienone al Melloblocco, del passaggio sciocco o del movimento a scrocco; quello spazio insomma che rivendica la sempiterna ricerca esplorativa di se stessi nell’ambito della moderna purezza della salita e della difficoltà, nella consapevolezza però dell’appartenenza ad un tutto vivo e pulsante, assai più penetrante e significativo.
Se dunque arrampicare è “incarnare pienamente in ogni movimento la morale da cui tutto ha preso vita. Dare significato a ogni gesto, equilibrare perfettamente le forze, entrare in sintonia con la natura”, quando mai quest’attività, che ha finito col riconoscersi nella danza, si riconoscerà nel mondo? Quando mai quei principi etici che di essa fanno parte imporranno precisi confini e limiti etici, al di là dell’originario dibattito sul tirare oppure no i chiodi e sulle sue definizioni? Dove si nascondono oggi “il potere trasgressivo del gesto del movimento”, le “suggestioni post-sessantottine”, “i concetti di partecipazione, condivisione, comunione” che sgorgavano dalle parole d’un Berhault amplificatore notturno d’emozioni all’Anfiteatro di Cucco?
Scrissero Montanelli e Cervi che “La storia ha detto, con perentorietà, chi avesse ragione” fra certe “enunciazioni oltranziste” e quelli che invece “volevano l’economia di mercato”; non si domandarono però dove tanta presunta libertà ci abbia portato…ed io – si badi bene – mi limito qui a dissertar di fesserie tipiche d’una vita borghese semi-normale.
Stringer prese per ballare in verticale non è mai stata pratica tanto artificiosa e superficiale, un raccontarsi balle, l’invenzione d’un qualcosa che è ben altro rispetto al tentativo di traslazione sul piano politico e sociale che ingenuamente e provocatoriamente m’invento nella speranza che affacciarsi alla scalata del domani possa significare un gioco in qualche modo nuovo, rivoluzionario nelle ragioni oltre che in (stru)menti e (im)posizioni, senz’implicar soltanto acquisti e spese assurde ovunque mi ritrovo.
Curiosamente, nel raggiungere il grottone del Pertuso Cornarea in Val Tanarello, siamo incappati qualche weekend fa in questa mirabile operetta, nascosta fra le riviste d’un negozietto d’alimentari: ed essa ci ha stimolato ragionamenti che ci rendon, credo, a questo punto, vacanzieri assai poco ordinari.
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