Riflessioni in semilibertà di un climber in pantofole.
Oppure: riflessioni in pantofole di un climber in semilibertà.
Marzullerie da placca o da strapiombo per non soccombere o scivolare in pandemia.
Avvertenze e posologia: immergetevi e leggete in modo fluido (sperando che scorra), come se fosse un video su YouTube.
Andiamo alla ricerca di un’origine della (faccenda) verticale, senza che sia per forza storiografia, scorrendo le pagine vorticose di una vicenda tutta nostra, eppure non del tutto in mano nostra; cercando di non restare solamente fermi alla superficie delle cose, come nello sfiorar la pelle o carezzando la pietra percepiamo sensazioni e vibrazioni che vanno oltre la materia, che dopotutto è polvere e ancor prima idea, concetto, esperienza; cercando di trasformare ogni finale in un nuovo inizio il più possibile coerente con quel che lo ha anticipato e di cui non può far senza. Ogni filmato, una volta concluso, può ricominciare ed essere guardato, ancora e ancora, per coglierne aspetti più nascosti, rivelazioni più discrete. Quanto agli effetti collaterali: se scalate, già li conoscete.
Il regista della faccenda
“mi spiace vedere che si stanno perdendo dei valori che sono la base per un sano futuro.” (Delfino Formenti, dalla Bacheca di Larioclimb)
L’arrampicata è, anzitutto, illusione.
La concretezza del gesto e la materia su cui lo scalatore si muove sono elementi utili soltanto alla realizzazione di un sogno, di una fantasia verticale non completamente nostra, ma che facciamo nostra (espropriandola al chiodatore, unico vero regista della faccenda), rielaborandola e adattandola alle nostre personali esigenze.
Stringere in mano la presa-chiave dopo averla intuita è avere in pugno il mondo, o quantomeno la nostra minuscola vita. In uno o pochi attimi appena si fa tangibile una speranza costruita in lunghe ed acciaianti serate di allenamento, magari disegnata nottetempo, risvegliandosi cadendo a un passo dalla soluzione.
Raggiungere la sosta – a seconda che si sia pratici di vie lunghe, alpinisti, o falesisti da monotiro – è un primo passo verso l’innalzamento al cielo, oppure la prova definitiva della nostra infima grandezza.
Si crede d’essere così quel che si fa, che si realizza. La fatica sostenuta per riuscirci è un bell’esempio meritocratico di umiltà e di coerenza etico-morale (ottengo per quel che sgobbo), ma sempre più lascia lo spazio ad interpretazioni fascio-macho pronte da smontare, o a più moderne riletture comode e rasserenanti, secondo le quali il percorso verso la vittoria andrebbe il più possibile facilitato: tutti debbono poter sognare. La democraticizzazione mercantile di quest’attività sta conducendo ad esiti discutibili, che vale la pena analizzare criticamente.
In sostanza, non so se sia per far crescere in consapevolezza tanta gente che questa roba s’è fatta prima sport e dopo business, e infine più niente: il nulla gonfiato attraverso interviste inutili e videoclip di eccezionale qualità, se a parte il salire e scendere ogni tanto si tacesse. Perchè non c’è granchè da dire di una nuova performance che non siano le emozioni non condivisibili del salitore (“difficilmente si provano le medesime soddisfazioni. Ognuno ha un suo percorso, una sua storia” – Andrea Gallo): suo l’indicibile sforzo, suoi i favolosi gesti, sua la vita intima che sempre più si fa pubblica e sociale, per poter sostenere il peso della commerciabilità d’un’idea tanto estrema in origine quanto oggi alla portata di tutti, o quasi.
Il fatto è che l’illusione dell’arrampicata è sempre stata un fatto nostro, genuino, pensato unico, senz’altro vero laddove ci s’aggrappi ad un rinvio oppure s’impugni la catena; mentre, per dire, chi va a morire in ciabatte sul Bianco cede alle lusinghe d’una pubblicità molesta quando non mortifera. Si deve poter fare (leggi: spendere), si deve poter avere (leggi: comprare), si deve poter andare (leggi: arrivare), ma nulla e nessuno pensano a quel che si è durante il percorso e, se ancora si sarà, al ritorno. Avremo forse tenuto occupato un giorno, perso tempo, oppure guadagnato un pezzo di noi da salvaguardare, custodire, da non raccontare. Ecco, l’arrampicata è, fra le altre cose, questo segreto tutto nostro. Il contrario dell’amo gettato ai pesci nell’acqua che forma il calcare, modella appigli e appoggi, in cui ti dicono che ti puoi tuffare. Preferisco starne fuori, non abboccare, ammirare il prodotto di un’azione naturale, e solo allora combinar qualcosa. L’arrampicata è quello in cui credo che diventa azione, pur non comportando un benessere immediato per alcuno fuorchè al detentore di quell’illusione. E’ il contrasto fra gli opposti, l’alto e il basso, il freddo e il caldo, l’ombra e la luce, e tante altre ben note ma sempre stupefacenti banalità. E’ la fiducia in sè e nell’altro, il/la compagno/a della salita, che di quell’illusione singolare permette la realizzazione, la trasformazione in realtà quasi di coppia (uno fa, l’altro/a fa accadere). Cose vere, cose false, cose credute vere, pretese anche se false (quell’appiglio scavato, spaccato, quel resting che ho dimenticato); numeri, date, pagine da leggere e trascrivere, novità da ricercare; emozioni e sudore, la bellezza di un’abitudine che non ti ha mai stancato. E’, in fondo a tutto, probabilmente, amore (per sè, per la natura, per il prossimo quando possibile), e l’amore è la più indescrivibile delle illusioni; ma si sviluppa in progettualità e visioni, non per forza tipiche soltanto di un regista navigato.
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Il senso della faccenda
“Sono sul bordo di una rupe, / a superare il comfort e la sicurezza.” (Patrick Wolf, da Wind In The Wires)
E’ ormai un fatto acclarato che l’arrampicata non sia più passione, ma consumo. Ed è la passione medesima che rischia alla lunga di consumarsi. Il segno del tempo (sulla roccia, sulla pelle) m’infastidisce; ma il segno dei tempi mi spaventa.
L’idea che mosse i pionieri di questo sport-che-è-sempre-stato-molto-più-di-uno-sport (definizione che ha ormai un che di retorico, ma che continuo a ritenere vera) è piano piano svanita, lasciando il posto al business ed alla mediatizzazione estrema di una pratica che lo è sempre meno. Così facendo si è progressivamente rimosso un aspetto rilevante dell’attività, mascherandolo come se fosse sempre presente, ma mentendo: le emozioni propagandate dalle pubblicità sono aria fritta. Fanno un po’ pena certi video dai toni giovanilisti, al di là dell’indiscutibile talento dei protagonisti. Mi rendo conto che la cosa, attraverso l’esposizione mediatica, possa contribuire a fare uscire la scalata dalla (supposta) condizione di Cenerentola di tutti gli sport (sempre che a qualcuno interessi); ma mi pare che in sostanza il racconto, per quanto supportato dalle parole in prima persona dell’atleta, permanga ancorato ai luoghi comuni e all’ignoranza in materia dei più. E l’entusiasmo dei più giovani trasuda talvolta il vuoto di questi tempi falsi, costruiti, plastificati, quasi senza difetti. Non sempre, ovvio: non esageriamo; ma seguiamo una traccia come fosse un sentiero su cui siamo finalmente noi a piazzare ometti.
Come mi permetto di arrivare a valutare addirittura i valori che presumo guiderebbero una generazione?
Accidenti, è vero; forse non posso spingermi a tanto. Sicuramente esistono casi in cui il sentimento è sincero e l’intenzione di conoscere arrampicando (aprendosi al mondo, imparando – e contribuendo a fare – la storia di un’attività, confrontandosi con la realtà delle cose oltre che con la sola gravità) ben presente. Ma per i più si tratta semplicemente di una riproposizione artefatta di gesti d’altri, già visti, già vissuti, già compiuti e superati. Sempre più mi convinco che il solo visionario sia il chiodatore, e non il ripetitore. Ma anche nel suo caso, allorquando l’azione sia mossa non soltanto da genuina passione bensì da altre finalità (richieste da parte di enti statali, ecc.), il risultato, benchè ottimo da un punto di vista tecnico e della sicurezza, può apparire asettico e poco entusiasmante.
Insomma, ce l’ho con tutti: giovani in lolotte e vecchi in croce, chiodatori matti e climber inchiodati sulle loro vie. La ricerca di un’identità omologante è divenuta disturbante. Una volta cercavo nel negozio di materiali e abbigliamento qualcosa per essere me stesso, diversamente simile a pochi; oggi si ricerca disperatamente qualcosa che serva a somigliare il più possibile a tutti gli altri, nel vestito e nel pensiero (e non è meno patetica l’assai poco originale stravaganza dei c.d. trasgressivi). La ricerca tecnologica per permettere al climber di pesare qualche grammo in meno quando in parete s’è fatta quasi ridicola; tant’è, era aspetto che premeva pure a me quando inseguivo ostinatamente il mio misero 7b a vista con meno roba possibile addosso, tanto da rischiare di dover saltar dei chiodi… Tale ricerca oggi sembra servire unicamente a fini preoccupanti e gravi (guerre ed armamenti: la stessa rete internet ha origini nel campo militare) oppure inutili, risibili come questi; forse per farci credere d’essere al nostro servizio sin nei più infinitesimali dettagli, nelle più ridicole esigenze. Ma la gente continua a crepare per le stesse solite inconcepibili ragioni, eppure non si muove un dito, non si blocca un istante il meccanismo di morte in vita che ogni giorno sopportiamo. E qui c’è più poco da illudersi, sognare o sperare: la nostra piccola cosa fatta di roccia e chiodi si scontra, sfracellandosi come onda, col muro della stupidità fatta sistema sociale, economico e culturale. Alexa, spegni l’inquinamento!
Se ancora dunque l’arrampicata può avere un’importanza in questa nostra breve esistenza, dovrebbe essere non solo quella di farci stare bene, sollevandoci per qualche tempo dalla caotica pesantezza dei nostri “ruoli definiti nel colossale formicaio delle città industriali” (Gian Piero Motti); nè di condurci – privilegio che spetta a pochi – a chissà quale vertice di una storia sportiva fatta di atletismi perfetti, sigle e numeretti: questo non è che il piano più superficiale di tutta la faccenda. Essa dovrebbe invece comportare un passaggio – il più difficile – dall’illusione del singolo alla verità collettiva: un bloccaggio tanto basso per cui ci si può allenare, ma non si saprà mai con certezza di poterlo fare, e nessuna gara mai lo certificherà.
(foto tratta da YouTube)
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