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Posts Tagged ‘Andrea Gallo’

Elucubrazioni semiserie di mezza età (trascorsa/trastullata/persa) in chiave verticale. Il classico sermone di mezza stagione.

“Always climbing, to fall down again”
(Alice In Chains, da Voices)

Come cambiano le cose con la presa di coscienza che di tempo sopra appigli e appoggi, veri o finti, ne hai passato! Prima contava soprattutto l’aver fatto, realizzato; ora conta quantomeno l’aver visto, o potrei dire: l’esserci stato. Che poi, fra appigli e appoggi, quali ti ricordi più facilmente? Ai primi si concede un privilegio forse immeritato, giacchè è piuttosto coi secondi che sali generalmente, come tecnica di base comanda, e che nell’attimo cruciale ti sanno salvare!
Andrea Gallo sosteneva per se stesso che questo percorso di ricerca verticale conducesse dagli appigli più piccoli a quelli più belli: un po’ è certamente vero, ma – al di là che fra di essi è sempre possibile trovare un equilibrio – ci vogliono comunque tempo ed esperienza a riconoscer solo o, prima degli altri, quelli.
Molto probabilmente la linea parabolica che segnano le mie prestazioni rispecchia le diverse decisioni che ho scelto di prendere, ma ciò che scalo mostra quel che sono solo in un certo senso e fino a un certo punto. Ecco perchè il presunto riconoscimento sociale che si concede ai forti ha poco senso, in quanto non significa od implica niente al di là della pura prestazione sportiva, ma anche un atleta più o meno forte forse può essere (anche) qualcos’altro. O no? Spetta a loro dimostrarlo, come ad esempio fece Chabot. A noi, benchè ormai siamo mediamente vittime dei social, spetta unicamente dimostrare a noi stessi che sappiamo trovare un equilibrio fra passione e quotidianità, ed un senso ad una pratica che altrimenti non ne ha.

Il percorso che ognuno di noi segue ci porta su strade diverse, pur partendo dalla stessa esaltazione. Terminati tutti i sondaggi online sui gusti personali o sulla qualità dei materiali, sarebbe bello proporne uno che ponesse la questione: cosa ti ha lasciato, dopo anni, questo impegno intensivo extralavorativo? A) Consapevolezza di se stessi; B) Consapevolezza del mondo esterno; C) Un fisico scolpito; D) Emozioni indimenticabili; E) Nulla.
Oppure: cosa ricordi maggiormente, dopo anni, di quest’attività? A) Appigli e/o appoggi; B) Panorami; C) Amici; D) Palestre indoor; E) Nulla.
Attenderei poi con ansia il commento tramite editoriale di un qualche professorone della verticale, più o meno dedito allo spaccio di droga minerale od alla propaganda commerciale.
Quello che sono e che siamo come comunità, o che dovremmo voler diventare, nessuno me lo può suggerire; tutt’al più, e già vi concedo molto, ne possiamo parlare. Senz’altro qua c’è ancora un po’ di posto per chi il proprio posto giusto nel mondo ancora con esattezza non lo ha definito, e scalando ancora lo ricerca, guardandosi un po’ attorno e un poco dentro fra culi per aria e muscolose schiene, fra libertà etiche e solide catene.

Il bello e il brutto tutti li sappiamo, è come la medaglia e il suo rovescio: la parete che si staglia luminosa di prima mattina e la cacca di climber lì nei pressi la cui puzza si fa sempre più vicina. Quello che siamo è lo stato delle cose che contribuiamo a formare ogni giorno, senza mai distruggerne una parte o aggiungere qualcosa che non siano spit. Salvo casi rari (ed esposti mediaticamente in quanto comodi al sistema), raramente qualcuno si spinge a muoversi al di fuori del proprio ambito di passione o di lavoro, e/o del proprio territorio, e allora trova subito chi – del territorio avendo fatto un mito, e del servilismo opera o carriera politica – lo redarguisce: così accadde tramite letterine minacciose a Pareti ai tempi della guerra eterna – quando, accusato di noglobalismo o comunismo, Andrea Gennari Daneri meritò da certi lettori il consiglio di recensir piuttosto nuove falesie! – ; così accade oggi ai cantanti recalcitranti, per non parlar dei sindaci che si oppongono alla chiusura dei porti ai disperati: solo gli esseri umani ricchi e le loro merci ci danno speranza di nuova vita da replicare come automi, il resto è merda che annaspa nel mare dei profitti da capitale, e ci può anche crepare. Tanto la colpa la sappiamo già a chi dare: scafisti, ONG, buonisti, perfino ai negri stessi, insomma a chiunque al di fuori di padroni e Stato. Non so neanche fin qui come ci sono arrivato, dev’esser forse perchè la falesia che idealmente preferisco si trova in riva al mare o nelle sue immediate vicinanze, cosicchè il naufragio è ipotesi che vedi ad occhi aperti, più che stando in mezzo a un bosco o a un prato, anche se l’hai solo immaginato.

Come il coraggio o la disperazione, come il tempo e come il mare, anche l’arrampicata è prendere o lasciare; accettare se stessi e i propri limiti e nel contempo faticare per superarli. Ma c’è qualcosa che da un tot mi suggerisce una lettura forse un po’ troppo ambiziosa, ovvero: che quella posizione che ricerco freneticamente dibattendomi come una serpe sulla placca corrisponda, su altro piano, alla posizione che vado cercando fuori, nel mondo, e dentro, nel profondo. Ecco allora perchè il riuscire mai davvero mi soddisfa: perchè quella catena l’ho raggiunta, non me la sono tolta. Non è un processo di liberazione che sto percorrendo, bensì di minuscola e modesta accumulazione. Poco o nulla di diverso da quanto faccio già in città e da quanto mi succede attorno. Non dovrebbe stupirmi quindi che sempre più spesso il sorriso, perfino quello d’una momentanea vittoria, mi si trasformi presto in ghigno e il viso in grugno.

La presa di coscienza è quasi certamente l’appiglio più sfuggente, più difficile da scovare e da tenere in pugno; eppure, è anche quello in grado di mantenerti dignitosamente vivo. Quello che in nessuna gara viene considerato, giacchè l’intrattenimento deve aver la meglio nella fase temporale che segue il sacrificio lavorativo. Ed io la tengo stretta tanto che la mano trema, la roccia si sbriciola e la presa – toc! – si rompe: casco così nel baratro del circo mondano e modaiolo…ma mi ritrovo appeso alle mie quattro sicurezze in croce, a un imprevisto che modifica il destino, preso al volo; e però, siccome son restato lì sospeso, quantomeno so che non sono rimasto solo.

(foto tratta dal Climbing Business Journal)

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Riflessioni in semilibertà di un climber in pantofole.
Oppure: riflessioni in pantofole di un climber in semilibertà.
Marzullerie da placca o da strapiombo per non soccombere o scivolare in pandemia.

Avvertenze e posologia: immergetevi e leggete in modo fluido (sperando che scorra), come se fosse un video su YouTube.
Andiamo alla ricerca di un’origine della (faccenda) verticale, senza che sia per forza storiografia, scorrendo le pagine vorticose di una vicenda tutta nostra, eppure non del tutto in mano nostra; cercando di non restare solamente fermi alla superficie delle cose, come nello sfiorar la pelle o carezzando la pietra percepiamo sensazioni e vibrazioni che vanno oltre la materia, che dopotutto è polvere e ancor prima idea, concetto, esperienza; cercando di trasformare ogni finale in un nuovo inizio il più possibile coerente con quel che lo ha anticipato e di cui non può far senza. Ogni filmato, una volta concluso, può ricominciare ed essere guardato, ancora e ancora, per coglierne aspetti più nascosti, rivelazioni più discrete. Quanto agli effetti collaterali: se scalate, già li conoscete.

Il regista della faccenda

“mi spiace vedere che si stanno perdendo dei valori che sono la base per un sano futuro.” (Delfino Formenti, dalla Bacheca di Larioclimb)

L’arrampicata è, anzitutto, illusione.
La concretezza del gesto e la materia su cui lo scalatore si muove sono elementi utili soltanto alla realizzazione di un sogno, di una fantasia verticale non completamente nostra, ma che facciamo nostra (espropriandola al chiodatore, unico vero regista della faccenda), rielaborandola e adattandola alle nostre personali esigenze.
Stringere in mano la presa-chiave dopo averla intuita è avere in pugno il mondo, o quantomeno la nostra minuscola vita. In uno o pochi attimi appena si fa tangibile una speranza costruita in lunghe ed acciaianti serate di allenamento, magari disegnata nottetempo, risvegliandosi cadendo a un passo dalla soluzione.
Raggiungere la sosta – a seconda che si sia pratici di vie lunghe, alpinisti, o falesisti da monotiro – è un primo passo verso l’innalzamento al cielo, oppure la prova definitiva della nostra infima grandezza.
Si crede d’essere così quel che si fa, che si realizza. La fatica sostenuta per riuscirci è un bell’esempio meritocratico di umiltà e di coerenza etico-morale (ottengo per quel che sgobbo), ma sempre più lascia lo spazio ad interpretazioni fascio-macho pronte da smontare, o a più moderne riletture comode e rasserenanti, secondo le quali il percorso verso la vittoria andrebbe il più possibile facilitato: tutti debbono poter sognare. La democraticizzazione mercantile di quest’attività sta conducendo ad esiti discutibili, che vale la pena analizzare criticamente.
In sostanza, non so se sia per far crescere in consapevolezza tanta gente che questa roba s’è fatta prima sport e dopo business, e infine più niente: il nulla gonfiato attraverso interviste inutili e videoclip di eccezionale qualità, se a parte il salire e scendere ogni tanto si tacesse. Perchè non c’è granchè da dire di una nuova performance che non siano le emozioni non condivisibili del salitore (“difficilmente si provano le medesime soddisfazioni. Ognuno ha un suo percorso, una sua storia”Andrea Gallo): suo l’indicibile sforzo, suoi i favolosi gesti, sua la vita intima che sempre più si fa pubblica e sociale, per poter sostenere il peso della commerciabilità d’un’idea tanto estrema in origine quanto oggi alla portata di tutti, o quasi.
Il fatto è che l’illusione dell’arrampicata è sempre stata un fatto nostro, genuino, pensato unico, senz’altro vero laddove ci s’aggrappi ad un rinvio oppure s’impugni la catena; mentre, per dire, chi va a morire in ciabatte sul Bianco cede alle lusinghe d’una pubblicità molesta quando non mortifera. Si deve poter fare (leggi: spendere), si deve poter avere (leggi: comprare), si deve poter andare (leggi: arrivare), ma nulla e nessuno pensano a quel che si è durante il percorso e, se ancora si sarà, al ritorno. Avremo forse tenuto occupato un giorno, perso tempo, oppure guadagnato un pezzo di noi da salvaguardare, custodire, da non raccontare. Ecco, l’arrampicata è, fra le altre cose, questo segreto tutto nostro. Il contrario dell’amo gettato ai pesci nell’acqua che forma il calcare, modella appigli e appoggi, in cui ti dicono che ti puoi tuffare. Preferisco starne fuori, non abboccare, ammirare il prodotto di un’azione naturale, e solo allora combinar qualcosa. L’arrampicata è quello in cui credo che diventa azione, pur non comportando un benessere immediato per alcuno fuorchè al detentore di quell’illusione. E’ il contrasto fra gli opposti, l’alto e il basso, il freddo e il caldo, l’ombra e la luce, e tante altre ben note ma sempre stupefacenti banalità. E’ la fiducia in sè e nell’altro, il/la compagno/a della salita, che di quell’illusione singolare permette la realizzazione, la trasformazione in realtà quasi di coppia (uno fa, l’altro/a fa accadere). Cose vere, cose false, cose credute vere, pretese anche se false (quell’appiglio scavato, spaccato, quel resting che ho dimenticato); numeri, date, pagine da leggere e trascrivere, novità da ricercare; emozioni e sudore, la bellezza di un’abitudine che non ti ha mai stancato. E’, in fondo a tutto, probabilmente, amore (per sè, per la natura, per il prossimo quando possibile), e l’amore è la più indescrivibile delle illusioni; ma si sviluppa in progettualità e visioni, non per forza tipiche soltanto di un regista navigato.

Il senso della faccenda

“Sono sul bordo di una rupe, / a superare il comfort e la sicurezza.” (Patrick Wolf, da Wind In The Wires)

E’ ormai un fatto acclarato che l’arrampicata non sia più passione, ma consumo. Ed è la passione medesima che rischia alla lunga di consumarsi. Il segno del tempo (sulla roccia, sulla pelle) m’infastidisce; ma il segno dei tempi mi spaventa.
L’idea che mosse i pionieri di questo sport-che-è-sempre-stato-molto-più-di-uno-sport (definizione che ha ormai un che di retorico, ma che continuo a ritenere vera) è piano piano svanita, lasciando il posto al business ed alla mediatizzazione estrema di una pratica che lo è sempre meno. Così facendo si è progressivamente rimosso un aspetto rilevante dell’attività, mascherandolo come se fosse sempre presente, ma mentendo: le emozioni propagandate dalle pubblicità sono aria fritta. Fanno un po’ pena certi video dai toni giovanilisti, al di là dell’indiscutibile talento dei protagonisti. Mi rendo conto che la cosa, attraverso l’esposizione mediatica, possa contribuire a fare uscire la scalata dalla (supposta) condizione di Cenerentola di tutti gli sport (sempre che a qualcuno interessi); ma mi pare che in sostanza il racconto, per quanto supportato dalle parole in prima persona dell’atleta, permanga ancorato ai luoghi comuni e all’ignoranza in materia dei più. E l’entusiasmo dei più giovani trasuda talvolta il vuoto di questi tempi falsi, costruiti, plastificati, quasi senza difetti. Non sempre, ovvio: non esageriamo; ma seguiamo una traccia come fosse un sentiero su cui siamo finalmente noi a piazzare ometti.
Come mi permetto di arrivare a valutare addirittura i valori che presumo guiderebbero una generazione?
Accidenti, è vero; forse non posso spingermi a tanto. Sicuramente esistono casi in cui il sentimento è sincero e l’intenzione di conoscere arrampicando (aprendosi al mondo, imparando – e contribuendo a fare – la storia di un’attività, confrontandosi con la realtà delle cose oltre che con la sola gravità) ben presente. Ma per i più si tratta semplicemente di una riproposizione artefatta di gesti d’altri, già visti, già vissuti, già compiuti e superati. Sempre più mi convinco che il solo visionario sia il chiodatore, e non il ripetitore. Ma anche nel suo caso, allorquando l’azione sia mossa non soltanto da genuina passione bensì da altre finalità (richieste da parte di enti statali, ecc.), il risultato, benchè ottimo da un punto di vista tecnico e della sicurezza, può apparire asettico e poco entusiasmante.
Insomma, ce l’ho con tutti: giovani in lolotte e vecchi in croce, chiodatori matti e climber inchiodati sulle loro vie. La ricerca di un’identità omologante è divenuta disturbante. Una volta cercavo nel negozio di materiali e abbigliamento qualcosa per essere me stesso, diversamente simile a pochi; oggi si ricerca disperatamente qualcosa che serva a somigliare il più possibile a tutti gli altri, nel vestito e nel pensiero (e non è meno patetica l’assai poco originale stravaganza dei c.d. trasgressivi). La ricerca tecnologica per permettere al climber di pesare qualche grammo in meno quando in parete s’è fatta quasi ridicola; tant’è, era aspetto che premeva pure a me quando inseguivo ostinatamente il mio misero 7b a vista con meno roba possibile addosso, tanto da rischiare di dover saltar dei chiodi… Tale ricerca oggi sembra servire unicamente a fini preoccupanti e gravi (guerre ed armamenti: la stessa rete internet ha origini nel campo militare) oppure inutili, risibili come questi; forse per farci credere d’essere al nostro servizio sin nei più infinitesimali dettagli, nelle più ridicole esigenze. Ma la gente continua a crepare per le stesse solite inconcepibili ragioni, eppure non si muove un dito, non si blocca un istante il meccanismo di morte in vita che ogni giorno sopportiamo. E qui c’è più poco da illudersi, sognare o sperare: la nostra piccola cosa fatta di roccia e chiodi si scontra, sfracellandosi come onda, col muro della stupidità fatta sistema sociale, economico e culturale. Alexa, spegni l’inquinamento!
Se ancora dunque l’arrampicata può avere un’importanza in questa nostra breve esistenza, dovrebbe essere non solo quella di farci stare bene, sollevandoci per qualche tempo dalla caotica pesantezza dei nostri “ruoli definiti nel colossale formicaio delle città industriali” (Gian Piero Motti); nè di condurci – privilegio che spetta a pochi – a chissà quale vertice di una storia sportiva fatta di atletismi perfetti, sigle e numeretti: questo non è che il piano più superficiale di tutta la faccenda. Essa dovrebbe invece comportare un passaggio – il più difficile – dall’illusione del singolo alla verità collettiva: un bloccaggio tanto basso per cui ci si può allenare, ma non si saprà mai con certezza di poterlo fare, e nessuna gara mai lo certificherà.

(foto tratta da YouTube)

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Da domani (ma forse già fin d’ora), tutti leghisti!
Mi ci gioco le scarpette, prima di appenderle al chiodo.
Il pensiero che non mi rincuora è, venendo al sodo: che sia già l’epoca dei giochi di potere anche nella verticale?

“in questi giorni non si parla di Finale come si dovrebbe. Non si parla di calcare. Non si parla delle bellissime vie possibili. Si parla di presunte lotte fra climber e associazioni ambientalistiche. Si parla di giochi di potere. Si parla di tutto tranne che di roccia.”

“anche i climbers sono tanti e votano.”

Ricordate il prode difensore degli arrampicatori (e dei cacciatori) dall’attacco della lobby ambientalista? Il politico verde oggi si riconosce dalla tessera di partito, mica dalla coscienza ecologica. Quanto al climber, il suo miglior difensore spero proprio non debba essere un ottuso regionalista padano; nè evita l’errore il buon Andrea Gallo, nome mitico e nume tutelare del Finalese verticale, nel pensare che lo scalatore d’oggi gli possa in qualche modo somigliare. Son passati i tempi ed oggi solo l’egoismo ha vinto su ogni altro valore. E’ l’egoismo a spingere il leghista imbragato a dar battaglia a negri e ad avvoltoi, per concedere al climber imbranato di potere anch’egli farsi allegramente i fatti suoi, senza trovar nidi con ovetti per cui provar pena, e senza che nessuno gli possa chieder l’elemosina in catena, od all’ingresso serale a Finalborgo, rovinandogli la cena.
Ed è sempre l’egoismo a spingere il praticante medio a lordare il paradiso terrestre di cui può godere, e che dovrebbe difendere a spada tratta se davvero vi tenesse; solo a tenersi in forma invece quello pensa, e tutt’al più ad unirsi in associazione con energumeni simili a lui, al fine di difendere ancora maggiormente il proprio interesse.
Prendo amaramente le distanze dagli uni e dagli altri.
Non credo che la politica debba essere un gioco di ricatti, nè mi basta che si risolva in uno scontro fra piccoli poteri, con piccoli vantaggi dedicati ad i più scaltri o ai meno seri.
Purtroppo anche i climbers votano, temo sia vero, e per fortuna non so come e cosa; procederei pei boschi col falcetto altrimenti, e non per farmi strada fra la vegetazione irta e spinosa.

Mentre a Toirano – zona ancora in fase di espansione – il gruppo di arrampicatori e chiodatori locali scomoda le amministrazioni (leghiste, pure qui, e ben poco green) ad interessarsi allo sblocco dei divieti di chiodatura relativi a certe parti della valle del Vero, nella vecchia Finale succede l’opposto: ovvero, sono le amministrazioni del luogo, assieme al Club Alpino e ad alcuni (supposti) ambientalisti, a denunciare il problema dell’eccesso di chiodi infissi sulle pareti della zona.

Dovrei in teoria inneggiare alla modalità anarcoide con cui chi chioda le falesie si muove liberamente, spesso senza chiedere permessi o consultare enti territoriali; denunciare, come fa Gallo, l’ipocrisia di istituzioni locali ed ufficiali come il CAI, che dando un colpo al cerchio e uno alla botte si muovono subdoli senza far ben capire in quale direzione; e caldeggiare una difesa strenua ad ogni livello del nostro particulare…se non mi preoccupasse invece l’atteggiamento di chi ci patisce, poverino, che gli tocchino il giochino, finendo per attaccarsi al treno veloce delle rivendicazioni politiche più minime e meschine.
A quarant’anni vedo il mio futuro come un insieme di falesie la cui infinità d’itinerari non riuscirò mai a completare; dunque, perchè mai si dovrebbe continuare a chiodare? Per i nuovi arrivati, si dice. Per consentire a tutti d’avere un terreno di gioco. Sembra altruismo, e invece è primariamente profitto, opportunismo: il solito discorso dell’indotto, dello sport-alternativo-ormai-quasi-massificato che ha trasformato un borgo delizioso in un centro commerciale per milanesi annoiati (ma anche per liguri con manie di grandezza), red carpet incluso ed inclusivo di maltolto. Il problema nella sua interezza è inesistente e già risolto: che i climbers e gli ambientalisti si parlino, come è sempre stato fatto, senza necessità che vengano lanciate provocazioni, polemiche e allarmismi a mezzo stampa. Vero è che siamo forse diventati troppi, in un ambiente limitato, a volere usufruire delle stesse bellezze naturali: climbers, bikers e trekkers si contendono il parcheggio a Monte Sordo nel weekend, e nelle feste “sembra di essere all’Ikea” od alla Fiumara.
Si stava meglio quando si stava peggio, quando l’arrampicatore era uno strano, strambo, un poco matto, merce rara. Il chiodatore allora inseguiva un proprio sogno e non le più recenti necessità indotte più o meno a forza dal mercato dell’outdoor. C’era posto per tutti, bestie e cacciatori inclusi, semplicemente perchè s’era in pochi. In merito a questa evoluzione/involuzione ho spesso detto, e non è il caso che ogni volta mi si richiami all’ordine della dittatura democratica per cui si dovrebbe garantire a tutti il diritto alla scalata. Non prendiamoci in giro. Questo sport è stato banalizzato e raccontato come fosse tutt’altra cosa per poter vendere scarpette e imbragature, non ci son diverse spiegazioni o sono tutte fregature. Quando scalavo io, ai tempi della prima palestra d’Italia al liceo King mi guardavano come un cretino ed un marziano, e certo la cosa ha contribuito a farmi crescere adolescente pieno di problemi. Ma bisogna essere scemi per non accorgersi che mode e tendenze son tutte sospinte da un sistema di coercizione sorridente che non ti spiega niente al di là del concetto di divertimento, e del tuo presunto diritto allo stesso. L’arrampicatore idealista e rispettoso che descrive Gallo è ormai quasi estinto, non più riproducibile. L’arrampicatore moderno facilmente sgarra e se ne frega del prossimo suo (alla faccia della comunità) e anche delle regole condivise; per lui esistono solo il grado su cui discettar per ore e la scorecard da aggiornare. Più sento parlare i climbers, ad esempio dei limiti loro ingiustamente imposti, e più divento birdwatcher. Vero è che talvolta, come spesso in questo paese, far rispettare certe regole diventa esercizio grottesco e ingiustificato, come quando volarono le multe nell’albenghese senza che nessuno avesse mai visto più d’un uccellino. Ma quando ti cali a fianco ad una via con un bucone, come mi successe a Cucco, e da quel nido fugge spaventato un volatile facendone cascare un ovetto che si sfracella al suolo…capisci d’esser tu nel posto sbagliato, e non loro ad aver occupato un attico vista mare senza rispetto dell’altrui proprietà. Il cadaverino rosa venne lanciato nel bosco senza troppo riguardo, con appena un minimo di commozione, e poco dopo altri climbers rapaci si preparavano ad affrontare il tiro. Il Rockstore tempo addietro mise un avviso alla partenza di Vivere di rabbia al Solarium (o Specchio) di Monte Sordo: la differenza fra le passioni si vede pure da queste piccole attenzioni ed auto-limitazioni. Perseverare nella difesa dei propri esclusivi voleri, trasformandoli in diritti, è atteggiamento tipico di un certo fascioleghismo attuale, che si sta diffondendo a macchia d’olio ed è facile capir perchè. Andare incontro alle esigenze altrui è comportamento ormai inusuale, fuori moda, sconveniente. Meglio difendere la cosiddetta e supposta propria gente, attività questa assai proficua a livello del politicante, che diventa punto di riferimento di un’èlite fra tante. Ebbene, oggi che siamo tanti e pretendiamo di contare, di levare alta la nostra voce, siamo anche noi un’èlite arrogante che conta solo in quanto spende, uomini valutati in base al portafogli che mantiene in piedi un’economia di nicchia, la quale peraltro sopravviveva anche prima ed ora vive solo una rincorsa al soldo, pur non patendo esattamente i problemi di Kalymnos. L’outdoor è puro business, la chiodatura sfruttamento delle risorse naturali, l’arrampicatore automa; e il tutto mantiene degli antichi valori condivisi solo un pallido ricordo. L’autonomia ed il senso di responsabilità dei climbers, tanto decantati, davvero hanno bisogno di un aiutino politico e della minaccia elettorale? Davvero contiamo in quanto votiamo, e nulla più? Davvero abbisogniamo di questi mezzucci, e ne vogliamo approfittare?
Vorrei proprio capire se anche i climbers, come quasi ogni altra categoria sociale che si rispetti – o meglio, che intenda farsi rispettare (esclusi quindi questuanti, zingari, immigrati e poche altre minoranze) – intendano abbassarsi a buttare in politica anch’essi il proprio patetico, frustrato e sfrontato egoismo di categoria: l’ennesima difesa corporativa; oppure se vogliano, almeno loro, evitare questa squallida deriva.
Se dal coraggioso (benchè poi smentito) ‘manifesto dei diciannove’ siamo discesi al livello delle roboanti dichiarazioni di Rixi una o più ragioni storiche ci devono pur essere, e non è difficile risalirvi. Occorre però farlo per evitare che il nostro entusiasmo si suicidi annegandosi nella torbida palude degli interessi privati, dove si raccolgono gli istinti animaleschi e si scontrano le ottusità di uomini ormai allergici al confronto, a meno che non sia battaglia mediatica di facciata, messinscena ipocrita, teatrino demenziale di una politica in picchiata verso un gran finale pessimo: quello in cui la mia passione sarà regolata, carezzata, blandita, incasellata; difesa da figuri con i quali nulla vorrei avere a che fare, che a stento c’entrano qualcosa con (i valori per me ancora insiti nel)l’arrampicare.

(foto tratta da Genova 24)

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Del sogno olimpico e d’altre imposizioni culturali.

Non dirò che non voglio l’arrampicata olimpica: dirò che non esistono ragionevoli motivi per volerla, se non quelli del business, mediaticamente serviti e pronti da introiettare; e che a tale riguardo non esiste dunque che una sola voce uniformante, quella dell’entusiasmo olimpico padronale.

“Siamo diventati un vero sport”

“AAAh i nostalgici, quelli che arrampicano per trovare la loro libertà… quanti ne conosco… e quanto li odio…”

“La nostra struttura sociale è fondata sulla competizione, quindi sull’esclusione.”

“C’è gente che è competitiva anche a pelare le patate.”

Dai tempi del celebre ‘manifesto dei diciannove’ contro le competizioni ne son cambiate di cose, ne son stati sostituiti di chiodi, ne abbiam raccolta di spazzatura. Era il tempo di Sport Roccia ’85, un nome una necessità, per alcuni (fra i quali un famoso giornalista di Tuttosport); per altri, una contraddizione in termini.
E’ o non è stato il settore delle Gare in Valle Stretta, nonostante i “purtroppo” e i “che tristezza!!” anticipati di Andrea Gallo (guida di Alp ai Luoghi della libera, 1987), il “primo rocciodromo all’aperto d’Italia”?
Quando si definisce un’attività in “crescita formidabile” si sta parlando in termini di quantità o di qualità?
Per carità, meglio esser libri di resina e cemento che di sangue.
Non è però mai stato chiarito al grande pubblico (che un tempo si chiamava società civile) cosa debba significare il termine progresso: pensavo si dovesse trattare d’una evoluzione, d’un cambiamento in meglio, e che dovesse forse coincidere con il termine delle nostre fatiche, o con l’inizio d’un benessere diffuso, equamente distribuito. Ma, a prescindere dal fatto che noialtri si fatichi abitualmente per divertimento, qui mi si vuol comunque convincere che non tutte le evoluzioni vengano per nuocere, anzi: che sia in ogni caso necessario e ben gradito compiacersene.
La presunta ‘naturale’ evoluzione della scalata a mani nude in sport agonistico, ad esempio, non so quando sia mai stata dimostrata. M’ostino a pensare che nella vita ci si possa confrontare per comprendere, senza per forza dover decidere chi sia il migliore. Ogni classifica, se a qualcuno dovesse proprio interessare, è peraltro relativa. D’assolutamente certo c’è che in falesia è possibile avvistare un’intera fila di agghiaccianti 7 ed 8, restando fregati dall’unico spigolino tecnico di seicippiù: là dove quasi tutto è possibile, più che altrove entra in gioco l’imponderabile, che rendendo l’imprecazione facile ti rende inclassificabile. Bravo, forte…che cosa può non dico solo importare, ma significare? Che sia dunque l’illustre sconosciuto ad esser coglione per scelta, quello che la scorecard o non l’ha o non la ricorda, quello che magari annota, ma non per (di)mostrare? Non sto parlando di fantasmi: essi vivono, e lottano ormai soltanto più per conservar se stessi integri e sani, nascondendo la performance allo sponsor, perseguendo obiettivi fuori moda in falesie irraggiungibili.
Se mai sarà olimpica, arrampicata farà rima probabilmente con velocità: il riassunto stringato d’una attività descritta banalmente ad uso (inter)nazional-popolare. In questi tempi critici e frenetici, d’arrampicare con lentezza c’è bisogno; anche se poi la via magari la chiudi con un lancio improvviso. Ma la concentrazione non esclude il dinamismo; ottuso è piuttosto il troppo semplificare, che rende penoso il gioco.
Le categorie (spesso fra loro collegate) della bellezza estetica e del significato profondo delle cose non vengono considerate, non servono, non producono nè vendono, non fanno classifica; ma resistono proprio perchè non possono nè vincere nè perdere: esse semplicemente esistono, anche se non son quasi più riconosciute. Così vedi la linea bella, magica, pura ma ti lasci attirare da quella brutta, orribile, costretta, che a farla bella e ad attizzarti chissà cos’è, forse il push up del grado, o un certo grado di malizioso, cupo sudiciume. Buon per me: la bella non avrà coda e potrò farla mia (lo temevo, ricasco in un elitarismo compiaciuto!).
Ma il tempo stringe. Non abbiamo tempo. Presto che è tardi!
Devo lavorare per consumare e così consumar la vita a desiderar di consumare. Devo vincere per guadagnare, è dignitoso ma mi fa, pur se vittorioso, poco eccezionale.
Ma io, che non ho più tempo di vincere, e mai peraltro ne ho avuto le forze, qualcuno dovrò pur applaudire. “Eravamo atleti, diventeremo tifosi”, sentenziava lagnoso un praticante polemico di codesta attività – così almeno m’è stato tramandato. Ma già atleta è una parola grossa, un riconoscersi cavia, bestiola, furetto. Fatico a riconoscermi da solo nello specchio e non soltanto nell’alzarmi mattutino, figuriamoci se potrei cedere al riconoscimento che qualcuno potrebbe volermi dedicare. Certo, non mi s’impone niente, almeno direttamente. In maniera indiretta, però, ti dicono che cosa è bene o male; ed era un bene sino a ieri, ad esempio, intendere il pallone come “un’attività alternativa alla guerra”, mentre oggi il campioncino porta amorevolmente la guerra stretta al braccio agli Europei. Ne cambiano di cose – continuamente, progressivamente. Loro, naturalmente; e ben poco naturalmente. D’altronde lo stesso barone De Coubertin sapeva benissimo che “l’atletismo (…) può essere usato per consolidare la pace così come per preparare la guerra”. Ecco perchè odo cazzate ed intuisco male intenzioni, ravviso fraintendimenti, vedo nel “vero sport” un vero spot, cinque cerchietti per le allodole; mentre m’assordano gli slogan ed immagino i fuochi d’artificio, il soundtrack ufficiale.
Per Tuttosport siamo già “il Climbing”, che americanizzato fa assai figo… Disciplina in rapida trasformazione: per l’Economist “quella che un tempo era un’attività di nicchia si sta trasformando in uno sport vero e proprio”, anzi il “nuovo sport di tendenza”, pronto alla passerella e alla sfilata. “Se la trasformazione sarà completa lo deciderà il CIO”, mica io, dopo aver osservato il nostro (oddio! M’è scappato) tentativo di battere Baseball, Karate, Roller Sports, Softball, Squash, Wakeboard e Wushu, tutti maiuscoli, maschi ed incazzati.
Per una cannetta fatta pagare a Sharma c’è l’Eritropoietina lacrimevole di Schwazer a ricordarci come si può marcire nel marciare in una certa direzione.
Per un tocco libero di genio a rischio arresto causa Olimpiadi c’è un tentativo sicuro di vender lo squallore tricolore.
Lo so, vorreste convincermi che tutto questo sia normale. Peccato: il consiglio per l’acquisto non fa parte del mio bagaglio culturale verticale.
E ancora non mi sono chiari i motivi reali e concreti in base ai quali dovremmo tutti quanti considerare “molto positivo per l’attività che l’arrampicata entri a far parte della famiglia olimpica”, come sostiene Scolaris. Ma tant’è… Così come per il Tav, ormai il pensiero che dev’essere anche mio è stato deciso, ed il solo che post-manifesto restò coerentemente contrario alle gare è defunto di mal di montagna. Perciò, che squillino le trombe! The show (-business) must go on.
Cosa ci sarà poi tanto da discutere non so. L’arrampicata non è sport olimpico? Ma la carabina sì: è sport olimpico sin dalla prima edizione dei Giochi olimpici moderni (Atene, 1896), pensate un po’ che dignità. Non mi pare che ci sia da spararsi, vergognarsi od offendersi per questo.
Se proprio devo scegliere, fra tiri in porta, tiri a segno o tiri a canestro, perfino il lancio disperato alla catena mi pare più elegante e onesto.

Sondaggi, soldini, squadroni e benedizioni:
“Ma insomma, perché dovrei tifare per l’arrampicata?”
“43 % of the 2250 who have answered the Olympic poll, have voted, “Absolutely – WOW!”.”
“Clearly, climbing should be part of the Olympics but it seems very difficult as they do not want more sports in the game.”
“Climbing is one of the biggest sports that has not yet made it to the Olympics. Most climbers are in favour and of course this would make a huge impact on sponsor money etc.”
“con il progetto «Sport climbing – 2020 dream» si stanno intensificando le iniziative per dare la massima visibilità all’arrampicata”
“Ovviamente nella scelta contano molti fattori, alcuni dei quali esulano dallo sport in senso stretto: politica, lobbying e contatti hanno un grosso peso, e in questo quadro va intesa anche la decisione di organizzare un evento in Piazza San Pietro, sotto i buoni auspici del Papa”
“Ora, la componente competitiva è parte di quella ludica e, salvo gli eccessi e le perversioni cui sa elevarla l’essere umano, componente non trascurabile della nostra esistenza.
E poi, diciamolo, non se ne può più di certe contrapposizioni che affliggono endemicamente il nostro paese. Senza sindromi esterofile, guardiamo in Francia, per esempio: è vero, a suo tempo ci fu il “manifesto dei 19” contrari alle gare di arrampicata, ma quella società, così infinitamente più avvezza alla cultura della montagna, quanto è più vicina a una sintesi fra azione e contemplazione, fra l’andar per monti senza fine e l’andarci con il doppio fine, quello di salire e di vincere? Momenti diversi, complementari, compresenti, ora questo ora quello, della vita. Senza contrapposizioni assolute.”

“Perchè l’arrampicata ha delle componenti sportive a mio modo di vedere NON è semplicemente uno sport come invece lo è stare su 100 metri di pista.
Le componenti sportive dell’arrampicata sono sempre state, ed è giusto che così sia (sempre che si vogliano preservare i valori che l’alpinismo e l’arrampicata hanno sempre avuto), relativamente marginali.”

“Ci stiamo avviando verso l’irregimentazione culturale: giornali e televisioni locali, nazionali, mostre, festival del cinema, programmi scolastici, tutti pervasi dagli ideali ‘olimpici’… La cultura a senso unico è sempre stata un nemico da temere. Figuriamoci quando reclamizza prodotti commerciali.”
“si parte celebrando lo spirito olimpico (…) però in realtà tutti agitiamo le bandierine del nazionalismo. (…) Dove non c’è il tifo, ahimè, non c’è sport”
“Passerella di sport che nessuno conosce, trionfo dei nazionalismi, medaglieri per atleti che poi andranno in Parlamento, bromuro quotidiano sponsorizzato dalle multinazionali.”
“una delle più importanti strategie di accumulazione inventate dal neoliberismo è proprio quella del marketing urbanistico, del grande evento come punta avanzata di capitalizzazione che usa lo spazio metropolitano per l’estrazione di plusvalore.
Molti analisti britannici, non senza alcune ragioni, stanno parlando delle Olimpiadi come ultima vera istituzione globale multilaterale”

“Possano le Olimpiadi essere «un momento di rinnovata amicizia in cui forgiare la pace»: così l’arcivescovo di Westminster ha salutato gli atleti giunti a Londra da tutto il mondo. Proprio per rappresentare questo spirito, nella cerimonia di apertura il governo di Sua Maestà britannica ha fatto issare la bandiera olimpica con i cinque cerchi, simbolo di pace, da una squadra di 16 militari britannici, scelti tra quelli maggiormente distintisi nelle ultime guerre.”
“I media invitano il cittadino medio a esaltarsi per Valentino Rossi su Ducati, per la Pellegrini in vasca o per la vittoria dell’Italia di Prandelli contro la Germania non solo sventolando la bandiera dell’orgoglio nazionale, ma anche millantando improbabili collegamenti con l’economia reale: sono tutte cazzate, non servirebbe neanche ribadirlo. (…) Insomma, avremmo anche potuto fare il pieno di medaglie alle Olimpiadi, ma avremmo continuato a vivere in un Paese di merda.”

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Ripubblicato da Livellozero, maggio 2012 (sito non più esistente, se non per i vecchi articoli; qui un piccolo ricordo), con tanto di ufficiale pubblica presentazione

“39. Usiamo il termine “attività sostitutiva” per designare un’attività diretta verso un obiettivo artificiale che le persone si prefiggono semplicemente per avere un obiettivo da raggiungere o, lasciateci dire, semplicemente per la soddisfazione che ricavano dall’inseguire un obiettivo. (…)
63. Così sono stati creati dei bisogni artificiali che (…) garantiscono la dipendenza dal processo del potere. (…) L’uomo moderno deve soddisfare il suo bisogno del processo di potere in gran parte attraverso la ricerca di bisogni artificiali creati dalla pubblicità e dall’industria del marketing, e attraverso attività sostitutive. (…)
66. Oggi la gente vive più in virtù di quello che il sistema fa per loro o a loro che per quello che riescono a fare loro stessi. E quel che fanno per loro è fatto sempre di più dentro canali costruiti dal sistema. Le opportunità tendono a essere quelle che il sistema concede, e ad essere sfruttate in accordo con le regole e i regolamenti, e perché vi sia una possibilità di successo devono essere seguite le tecniche prescritte dagli esperti.
67. Così il processo del potere, nella nostra società, è spezzato attraverso una mancanza di scopi reali e una mancanza di autonomia nel seguire gli obiettivi. (…)
84. (…) un’attività sostitutiva è diretta verso un obiettivo artificiale; l’individuo la pratica per l’interesse verso il processo di “conseguimento” che ne ricava, non perché ha bisogno di soddisfare quello scopo specifico. Per esempio non vi è un motivo pratico per costruirsi enormi muscoli, inviare una piccola palla dentro una buca o acquisire una serie completa di francobolli postali. Tuttavia molte persone nella nostra società si dedicano con passione al body-building, al golf o a collezionare francobolli.”

“Non vi è un vero traguardo: la marcia si conclude quando rimane un unico partecipante, ovvero quando tutti gli altri 99 sono stati eliminati.
Al vincitore viene assegnato tutto ciò che desidera per il resto della sua vita. Questo premio a prima vista potrebbe sembrare il vero motivo che spinge ogni anno 100 ragazzi a rischiare la vita, ma è solo il pretesto che serve a giustificare nella mente di ogni giovanissimo partecipante un disagio interiore, una mancanza di scopi reali nella vita. La Marcia diventa lo scopo, un obiettivo facile da desiderare, ma una volta in gara tutto si rivelerà per quello che è: una lotta per la vita, per non essere eliminati, la voglia di non essere uccisi sotto gli occhi del pubblico in delirio.”

L’anno passato m’han premiato la presunta abilità da parete assieme ad un alpinista politico di professione, stimato fino a ieri al sei per cento (ed ora in caduta libera senza controllo) in vista del comando o della sua rappresentazione. Rappresentiamo spinte contrarie, su diversi terreni ci spingiamo. Talvolta è capitato di scontrarsi via email, di sfiorarsi per strada, d’adocchiarsi in palestra: è l’inutile bellezza della democrazia moderna, che ogni barlume di conflitto smorza e svilisce, ogni genuina speranza di cambiamento spegne ed umilia; “esasperata”“morbosa” (Ortega y Gasset) è un’eguaglianza conformante che non consideri una questione di qualità, tollerando ogni sprofondamento culturale, costringendo ogni spirito critico alla clandestinità. Sul materassone blu dello scimmiodromo di plastica cade ogni argomentazione, non ogni maschera; e tutti portiam la stessa con la stessa anonima, pallida soddisfazione. Non mi avrete mai, insisto bambinescamente, ma nell’arena già ci sono e procedo a giocare senza crescere. Che sia davvero possibile esserci diversamente, orgogliosamente modesto, diversamente instabile? O che debba infine sperare nell’intervento di Unaclimber, sperando altresì che sia affidabile?
Alla premiazione mi son presentato assieme all’invecchiamento attivo dei miei, ma separato. Fra la diffusa anzianità non v’era traccia d’Unaclimber, come invece avrei auspicato. L’incomprensione intergenerazionale è totale e generalizzata, ma egualmente ci si stringe le mani a tempo indeterminato per darsi un contegno, l’altra mano tenuta in tasca magari per strizzarsi le palle. I più vecchi han tanto salito in gioventù da non riuscire oggi a scendere un gradino. Siete voi due i migliori, han sentenziato dopo le rievocazioni di rito, fra sorrisi orgogliosi o imbarazzati; quello di lui raggiante, il mio un po’ più stranito. Migliore è l’arrampicatore che in faccia a giudici e pubblico fa una risata: voi non sapete di che parlo e di che vivo, ovvero perchè scalo. Come potete giudicarmi, se neppur sapevo d’essere in gara? Prestatemi un testo per farmi celebrare al microfono quel che volete, altrimenti biascicherò un grazie a mamma, a papà pensando quando m’accompagnava per bricchi sconosciuti o dimenticati, comunque mai più da alcuno frequentati, abbandonati al romantico ricordo di pochi ed all’ombra che meritano certe memorie delle quali quasi ci si vergogna, foto da cassetto senza più sogni, chiuso a chiave.
Non so perchè salivo: se fosse l’adrenalina delle vacanze estive, un desiderio infantile d’emulazione, un’energia altrimenti frustrata che avevo da domare (l’amore irrisolto per la panettiera), una sete da lunga camminata da placare, cui la camminata più non sarebbe bastata; o forse la semplice, naturale fiducia nella mano paterna, che sfogliava Montale Eugenio e Montagna Euro – suo lo storico libretto Palestre di arrampicamento genovesi del 1963 – con la medesima devotissima emozione e portava per rocce e per scogli me sperando che un giorno avrei forse io portato lui. Entrambi abbiamo avuto compagni col caschetto da affiancare e giornate con compagne di cordata da immortalare.
Ma son passati decenni e non son più bravo di prima se non ad evitar per quanto posso le più inutili fatiche e ad indignarmi più intensamente per ciò che non va e che mai più m’aspetto di veder andare. Vittorio Pescia del CAI Sezione Ligure, giunto a nobile età, sulla Rivista che mi fotografa scrive adirato “S’i’ fosse foco…” e come Cecco chissà cosa farebbe: smonterebbe monti sfigurati ed alpinisti montati suppongo, invece di distribuire premi a profusione.
Tant’è, mi presto alla carnevalata; come disegnava il mitico cartoonist Jules Feiffer i propri antieroi disponibili e rassegnati dinanzi alla “voce dell’uniformità” (“se noi, che siamo i più equilibrati, non facciamo qualche concessione…”), dagli altri ben poca comprensione potremmo aspettarci: la nostra ci tocca offrire. Sedotti dal processo del potere tutti son pronti a farsi vincitori, dal primo che si vanta all’ultimo che arranca. Ad unire i senza dio è la soddisfazione del proprio io. Ma non è La lunga marcia di Bachman questa: giochiam coi numeri sì, ma al bar dopo l’arrampicata, fra rutti e sonnecchi; non c’è suspence, nè vertigine nè orrore, nè tantomeno disperazione; mancano l’ardore, l’ansia, la solitudine, l’eliminazione, il pathos della lotteria. Eppure, sull’ormai impolverato Punto Rosso vent’anni fa un ironico Andrea Gallo già immaginava inquietanti, crudeli, grottesche “competizioni slegati, magari sopra una vasca con i coccodrilli al ritmo dell’house music”… In Spagna, di recente, con la prima gara in assoluto di deep water ci s’è andati vicino: i tempi son dunque maturi e scanzonati, non resta che imbarbarirli ancora un poco. Resisterei se fossi io L’uomo in fuga? Sopravviverei agli Hunger Games? Scalerei più a lungo, più forte, più in alto per non cedere e morire? In maggior numero sarebbero tifosi e cacciatori, solo e al proprio destino abbandonato il climber-giustiziere nemico dello Stato.

Il numero è estratto, ma ad assistere non ci sono più persone. Lo speaker tace. La gara s’è conclusa all’improvviso, a striature rosso sangue il colore delle prese del blocco di finale. Lo schianto è avvenuto alla sede della Federazione. E’ il richiamo tentatore di Unaclimber che t’assale.

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