Pensare e ripensare ad arrampicare, stancarsi e riposare.
“Alcuni si rallegrano di tale evoluzione.
Altri, no.”
Non l’avreste forse mai detto, ma nella scalata la fase della meditazione è assai importante.
Visti i tempi demenziali che corrono, potrei organizzare dei corsi di scalata introspettiva, emozionale, filosofica, coscienziale, e per buttarla in politica financo resistente (perchè tutto è Potere: anche se ti tieni abbestia o non ti tieni niente); sempre che a qualche altro furbacchione non sia già saltato in mente.
Arrampicare è approfondire la conoscenza di se stessi, intensificando l’autoconsapevolezza e riversandola nel mondo, specchiandovisi. E’ altresì fuga dal mondo civilizzato, conosciuto, amato e odiato, per rifugiarsi almeno qualche ora in una natura da riscoprire selvaggia e bendisposta, nè amica nè nemica, nè da sfruttare nè da temere, nè da idealizzare: semplicemente da rispettare, ritrovandovi una parte di sè e salvaguardandola.
E’, oltre a ciò, bicipite e avambraccio, scarpe strette, maglietta sudata, magnesite dappertutto, voglia di lottare impolverata, disegnata a casaccio sulle guance e sul naso. Tessera e allenamento, se si vuole. Competizione, per alcuni amanti di numeri, tempistiche, tabelle Excel, regole e schematismi. Per tutti ossessione, frustrazione, entusiasmo, soddisfazione. Analisi del problema, ricerca della chiave. Yoga, stretching, fisioterapista e trave. Gioco, fantasia, scoperta, libertà di scelta e d’azione. Completezza, ma anche contraddizione; sole ed ombra fra le umide pieghe di Cornei, naufragio a Kalymnos in mezza stagione. E’ la bellezza estetica unita alla coscienza e all’impeto del movimento. E’ la paura, e la capacità di trovarle da soli una propria soluzione.
Vorrebbero invece lorsignori, ma anche molti fra noi, che arrampicare rimanesse il solo non far altro che arrampicare: piede, mano e mano-piede, l’atto, il gesto, tutt’al più l’emozione. La continua, ossessiva, scimmiesca ripetizione. E poi la sua idealizzata rappresentazione.
Ma obbedire alla cieca passione è schiavitù; ed obbedire a una passione ormai fin troppo mediatizzata lo è ancora maggiormente. Quando l’arrampicata serve a pubblicizzare banche, cornflakes o panini, significa che qualcosa (pure troppo) è cambiato, e che nel tuo piccolo, gratuitamente, li stai un po’ pubblicizzando pure tu.
L’arrampicata esiste, accidenti!, e non si vedeva l’ora che venisse ufficialmente dimostrato… O forse no: poichè non tutti la pensavano proprio così. Perchè un conto è se la scalata attira – come un tempo – una certa vitale diversità (“per sentirci più “liberi” da quell’omologazione che sembrava serpeggiasse avida di proseliti, sì proprio quella che cantavano i CCCP: ”produci-consuma-crepa!””, come ricorda Giovanni Massari); tutt’altra roba invece se è la scalata a ritrovarsi modernamente modellata sulla base dell’omogeneità di vedute dominante, omologata a standard che la rendono asettica, vuota, stanca ed ansimante come l’ultimo concorrente. Una scalata per tutti trasformata in una pazzia edulcorata, in un passatempo buono per risolvere la noia cittadina, in un gioco a sè stante. Free climbing, rafting, bungee jumping. Quante maniere per svagarsi, quante!
Nonostante certe performance di rilievo assoluto, c’è chi la vede sofferente, se non morente addirittura. Cosa ho risolto o guadagnato, al di là del metro prettamente sportivo, se ho saltato qualche centimetro di più, alzato l’asticella, cambiato letterina (il che, pure, sembra ogni volta a ciascuno di noi tanto importante)? Se l’entusiasmo che trasuda è diventato ciclica ripetizione, emozione genuina ma anche insignificante, nuda e cruda? Se si sgobba o si rischia di crepare per sè o per lo sponsor, in questo o in altri sport, non mi è più chiaro da tempo. Se si voglia dimostrare a sè od agli altri qualche cosa, nemmeno. Quale limite possa e quale non debba essere invece superato, questo m’interessa. Trovare un equilibrio il più possibile continuo, come nel tempo trascorso in verticale. Dare tutto, non credere a niente ed a nessuno. La banalizzazione e commercializzazione di un’idea bizzarra, benchè umana – salire per il salire -, m’appare oggi come un qualche cosa d’intrusivo e inopportuno.
Resistono cocciute delle differenze, a dimostrazione che la scalata è forse davvero soprattutto sincero esperimento di reciproco confronto, patrimonio di conoscenza collettivo ed anche, talvolta, lotta fra Davide e Golia, in senso ostinato e contrario rispetto alle logiche comuni (“Svolgiamo un servizio quasi di pubblica utilità, senza pubblicità. Quindi non siamo un social network. Non c’è bisogno di iscriversi”); ma le forze che ci fagociteranno sono meglio organizzate.
Questo destino mi preoccupa in quanto mi ci trovo legato in maniera che suppongo quasi eterna; più della mia stessa fine forse mi terrorizza. Eppure è proprio il minimo rischio insito nella disciplina a garantire la distanza dalla normalità dei più, dalla ricerca ossessiva e pigra di confort e di sicurezza. Certo la tecnologia corre dove scappano i soldi, cosicchè non stiam più fermi alle piastrine rosa che si sfogliano, il che è evidentemente un bene per la sicurezza di tutti; ma neppure i fittoni con la resina sembrano stare incollati quanto Ondra, e comunque per andare a scalare a Finale dovevamo passare da sempre ogni volta sul ponte Morandi.
Forse l’arrampicata finirà quando saran finiti i sognatori, i cercatori di rocce e i loro adepti, i loro imitatori, i nuovi precursori; quando le masse preferiranno in massa il luna park e gli ascensori, e quanti andran per monti e per boschi verranno additati quali personaggi quantomeno loschi. Quando poi quella passione anche negli ultimi disperati si scoprirà affievolita e consumata, a restare attaccati alla pietra rimarranno solo i chiodi infissi, e tutti li guarderemo dal basso del nostro miserevole buonsenso pensando: quant’eravamo fessi.