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Posts Tagged ‘sicurezza’

Pensare e ripensare ad arrampicare, stancarsi e riposare.

“all’inizio era l’entusiasmo, poi, a furia di ripetere la lezione, si è passati all’abitudine. È cosi! Sotto la parola «passione» vestiamo da carnevale la nostra incapacità di stare al mondo al tempo del presente.”

“Poi venne il tempo delle complicazioni. Riuscii a convincere alcune aziende di materiale per le scalate ad unire le loro forze. Giancarlo Tanzi, Gianni Bailo e Tono Cassin crearono un’operazione congiunta per parlare di free climbing. Perfino il Sole 24 Ore citò quell’evento. Ma forse in quell’occasione nacque il free climbing promozionale. Ci eravamo divertiti così tanto che nemmeno ci eravamo accorti di aver creato un mostro.”

“Alcuni si rallegrano di tale evoluzione.
Altri, no.”

Non l’avreste forse mai detto, ma nella scalata la fase della meditazione è assai importante.
Visti i tempi demenziali che corrono, potrei organizzare dei corsi di scalata introspettiva, emozionale, filosofica, coscienziale, e per buttarla in politica financo resistente (perchè tutto è Potere: anche se ti tieni abbestia o non ti tieni niente); sempre che a qualche altro furbacchione non sia già saltato in mente.

Arrampicare è approfondire la conoscenza di se stessi, intensificando l’autoconsapevolezza e riversandola nel mondo, specchiandovisi. E’ altresì fuga dal mondo civilizzato, conosciuto, amato e odiato, per rifugiarsi almeno qualche ora in una natura da riscoprire selvaggia e bendisposta, nè amica nè nemica, nè da sfruttare nè da temere, nè da idealizzare: semplicemente da rispettare, ritrovandovi una parte di sè e salvaguardandola.
E’, oltre a ciò, bicipite e avambraccio, scarpe strette, maglietta sudata, magnesite dappertutto, voglia di lottare impolverata, disegnata a casaccio sulle guance e sul naso. Tessera e allenamento, se si vuole. Competizione, per alcuni amanti di numeri, tempistiche, tabelle Excel, regole e schematismi. Per tutti ossessione, frustrazione, entusiasmo, soddisfazione. Analisi del problema, ricerca della chiave. Yoga, stretching, fisioterapista e trave. Gioco, fantasia, scoperta, libertà di scelta e d’azione. Completezza, ma anche contraddizione; sole ed ombra fra le umide pieghe di Cornei, naufragio a Kalymnos in mezza stagione. E’ la bellezza estetica unita alla coscienza e all’impeto del movimento. E’ la paura, e la capacità di trovarle da soli una propria soluzione.

Vorrebbero invece lorsignori, ma anche molti fra noi, che arrampicare rimanesse il solo non far altro che arrampicare: piede, mano e mano-piede, l’atto, il gesto, tutt’al più l’emozione. La continua, ossessiva, scimmiesca ripetizione. E poi la sua idealizzata rappresentazione.
Ma obbedire alla cieca passione è schiavitù; ed obbedire a una passione ormai fin troppo mediatizzata lo è ancora maggiormente. Quando l’arrampicata serve a pubblicizzare banche, cornflakes o panini, significa che qualcosa (pure troppo) è cambiato, e che nel tuo piccolo, gratuitamente, li stai un po’ pubblicizzando pure tu.

L’arrampicata esiste, accidenti!, e non si vedeva l’ora che venisse ufficialmente dimostrato… O forse no: poichè non tutti la pensavano proprio così. Perchè un conto è se la scalata attira – come un tempo – una certa vitale diversità (“per sentirci più “liberi” da quell’omologazione che sembrava serpeggiasse avida di proseliti, sì proprio quella che cantavano i CCCP: ”produci-consuma-crepa!””, come ricorda Giovanni Massari); tutt’altra roba invece se è la scalata a ritrovarsi modernamente modellata sulla base dell’omogeneità di vedute dominante, omologata a standard che la rendono asettica, vuota, stanca ed ansimante come l’ultimo concorrente. Una scalata per tutti trasformata in una pazzia edulcorata, in un passatempo buono per risolvere la noia cittadina, in un gioco a sè stante. Free climbing, rafting, bungee jumping. Quante maniere per svagarsi, quante!
Nonostante certe performance di rilievo assoluto, c’è chi la vede sofferente, se non morente addirittura. Cosa ho risolto o guadagnato, al di là del metro prettamente sportivo, se ho saltato qualche centimetro di più, alzato l’asticella, cambiato letterina (il che, pure, sembra ogni volta a ciascuno di noi tanto importante)? Se l’entusiasmo che trasuda è diventato ciclica ripetizione, emozione genuina ma anche insignificante, nuda e cruda? Se si sgobba o si rischia di crepare per sè o per lo sponsor, in questo o in altri sport, non mi è più chiaro da tempo. Se si voglia dimostrare a sè od agli altri qualche cosa, nemmeno. Quale limite possa e quale non debba essere invece superato, questo m’interessa. Trovare un equilibrio il più possibile continuo, come nel tempo trascorso in verticale. Dare tutto, non credere a niente ed a nessuno. La banalizzazione e commercializzazione di un’idea bizzarra, benchè umana – salire per il salire -, m’appare oggi come un qualche cosa d’intrusivo e inopportuno.
Resistono cocciute delle differenze, a dimostrazione che la scalata è forse davvero soprattutto sincero esperimento di reciproco confronto, patrimonio di conoscenza collettivo ed anche, talvolta, lotta fra Davide e Golia, in senso ostinato e contrario rispetto alle logiche comuni (“Svolgiamo un servizio quasi di pubblica utilità, senza pubblicità. Quindi non siamo un social network. Non c’è bisogno di iscriversi”); ma le forze che ci fagociteranno sono meglio organizzate.

Questo destino mi preoccupa in quanto mi ci trovo legato in maniera che suppongo quasi eterna; più della mia stessa fine forse mi terrorizza. Eppure è proprio il minimo rischio insito nella disciplina a garantire la distanza dalla normalità dei più, dalla ricerca ossessiva e pigra di confort e di sicurezza. Certo la tecnologia corre dove scappano i soldi, cosicchè non stiam più fermi alle piastrine rosa che si sfogliano, il che è evidentemente un bene per la sicurezza di tutti; ma neppure i fittoni con la resina sembrano stare incollati quanto Ondra, e comunque per andare a scalare a Finale dovevamo passare da sempre ogni volta sul ponte Morandi.
Forse l’arrampicata finirà quando saran finiti i sognatori, i cercatori di rocce e i loro adepti, i loro imitatori, i nuovi precursori; quando le masse preferiranno in massa il luna park e gli ascensori, e quanti andran per monti e per boschi verranno additati quali personaggi quantomeno loschi. Quando poi quella passione anche negli ultimi disperati si scoprirà affievolita e consumata, a restare attaccati alla pietra rimarranno solo i chiodi infissi, e tutti li guarderemo dal basso del nostro miserevole buonsenso pensando: quant’eravamo fessi.

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alpicella_caprettaKalymnos 2016: con due banane ed una sesame bar nel climbing stadium son la star.

Siamo di ritorno al lavoro in un mercoledì grigio e nebbioso anche sul mare e nell’umore. L’avventore al mio fianco stamane al bar ha sentenziato, credo parlando proprio del tempo – tematica prevalente in ogni comune discussione fra gente perbene -, che “Bisogna prendere quello che viene”. A questo davvero si riduce l’esistenza? A questa saggia, umida ma tutt’altro che fertile rassegnazione padana? Mi pare strano. Ieri notte, non per caso, la commessa dell’Autogrill di Dorno ci ha confessato infatti di volersi trasferire giù a Loano; per togliersi di torno forse un grigiore sin troppo diffuso, che stona coi racconti di chi come noi sbarca dalle isole greche o da Tenerife. Porto ancora in faccia un segno del sole a forma di occhiale che pare sia stato piuttosto in montagna a sciare. Ma qui il calore si spegne subito con la freddezza d’un clima sociale. Il fascismo è ritornato ad essere anticonformismo alla moda, e non è che l’odierna forma di pseudo-democrazia sia granchè migliore. E’ sufficiente sfiorare con lo sguardo la poderosa Torre dei venti nell’uscir dall’autostrada a Bergamo (niente a che fare quindi con la falesia di Ulassai), e poco dopo l’orologio in bella vista dell’Orio Parking, per accorgersi che questa non è nebbia bensì un fuoco funereo che brucia in silenzio sotto la cenere e fa al tempo stesso ghignare ed allibire con le sue pretese di fatua perfezione e di continuo miglioramento umano, quando attorno vediamo muoversi soltanto bestie, motorizzate o meno.

“Scritto da wildkiss 21 luglio 2015 alle 0:50
visto che qua siete tutti perbenisti e dovete soltanto giudicare fate una bella cosa.andate all orio parking di azzano s. paolo.quello non è un bar ma un parcheggio PUBBLICO dove vede molte più persone che il bar in discussione.ecco li è esposto il busto del DUCE e qualche cosa di più”

“Non bisogna essere bravi, bisogna essere migliori”, dice il duce mentre pago la mia sosta. Bravi rispetto a cosa e migliori di chi, noialtri fricchettoni di riviera nemmanco so se siamo e se potremmo diventare: quel che siamo siamo e molto di quello che vediamo o che sentiamo ci intristisce o ci disgusta, da certe amarezze a certe false sicurezze; e proprio non capiamo perchè dovremmo migliorare noi e non gli altri. Ma l’aeroplano vola ed io stimo un casino il comandante e il capitano, e anche le hostess. Stimo molto meno la compagnia aerea, che fatti i propri conti ha piantato in asso l’isola, mentre noialtri, fatti i nostri, seppur in perdita siamo ritornati: imprenditori fallimentari nati! Quel che abbiamo perso in euro è servito a non perdere la passione, ed è probabilmente stato poi recuperato sotto forma di comunicazione – termine evocato da Nikolas, ex pescatore ed insegnante in pensione, oggi caloroso e pittoresco oste a Palionisos Bay. Ciò che veramente sei alla fine viene fuori, romantico o stronzo su questa terra dura e selvaggia, onesta e pura non fa differenza; e noi che non riusciamo a starne senza torniamo ogni volta a scoprirne pezzetti sempre nuovi, convinti che anche stasera è un altro passo verso la comprensione d’una umanità che non può andar perduta sotto i cingoli d’un commercio più annichilente che costruttivo, che pure volenti o nolenti sosteniamo.

Così, sappiamo bene che, anche se il parcheggio per il Secret Garden è pieno, di coda alla taverna più genuina non ne troveremo: segreto è solo quel segreto che non vien svelato, ma riservato a pochi e soprattutto ricercato con ostinazione. Dave Graham stesso per modestia lo ha ammesso nello spaccio di Antonis: di rock climber è ormai pieno il mondo; di uomini veri, indignati e battaglieri, non ce ne son più poi molti. Ospitare significa tanto, molto più del rilasciare uno scontrino; quanto al viaggiare, implica ben di più dell’andare a zonzo in sella a un motorino. Banalità, senz’altro; ma i numeri dicono piuttosto chiaramente che facciamo tutti le stesse quattro cose in croce, e che a pretender qualcos’altro sono in pochi.
Quest’anno mi son pure preso la strigliata d’una ecologista nordeuropea che m’ha visto gettar lontano una maledettissima buccia di banana: “Ehi, lo sai quanto ci mette quella a decomporsi?”. Peccato ch’io l’avessi trovata in mezzo al sentiero alla base di Arhi, a pochi centimetri da dove ella scalava, e raccolta per recuperarne il meno biodegradabile adesivo, lasciando il resto alle caprette; stavo per l’appunto approfittando dello spostamento da un settore all’altro per pulire quel poco che riesco, e non per ricevere ammonizioni nello stesso senso. Ma la ragazza non aveva torto, aveva solo sbagliato bersaglio. Il problema è semmai che, nell’accanirci ormai su pochi metri quadrati da salvaguardare da altrettanti centimetri cubi di sporcizia, concretamente ci scontriamo con la noncuranza di chi manco mezza domanda s’è mai posto, e ci scordiamo degli effetti ben più devastanti che ha un sistema che dell’ambiente si preoccupa solo se la cosa può avere un ritorno in campo economico – green economy, s’intende. La natura non si offende, ma ogni tanto si ribella, facendo da sè quel che non abbiamo il coraggio di far noi: scrollarci di dosso un peso che dopo tutto ci tiene al caldo. Che esista un fondo dei climbers contro il cancro è ottima cosa, ma di Climbers Against Capitalism non ne ho ancora visti; eppure certe malattie dipendono fin troppo spesso dalle conseguenze di certo industrialismo spinto all’ennesima potenza e mai abbastanza controllato. Ma il climber, ben lo sappiamo, è artefice quanto schiavo d’un delicatissimo giuoco d’equilibri: traballa su una slackline fissata male sopra un vuoto indefinibile, preferendo non guardare; ordina il fritto noncurante degli schermi televisivi che raccontano di chi si perde nel conflitto. E più si convince che la sicurezza sia per lui (o per lei) una garanzia scontata, meno percepisce la serietà del gioco. Qualcuno ogni tanto si pone il problema tipico d’ogni comunità che si voglia intender tale: il partecipare. Si discute di come assicurarci un’attività serena per il prossimo futuro, per il momento il dibattito è aperto e le cassettine per le offerte esposte un po’ in tutti i negozi. Ma fra l’obbligo e la volontà passa un mondo e non intercorre alcun rapporto. Giusto sarebbe, più in generale, preoccuparsi di qualcosa che si vive come se fosse proprio, e che in fondo lo è nel momento in cui lo si fa o frequenta. Ma se vivere oggi è consumare e quel che si vive in fondo semplicemente lo si usa, della sua cura lasceremo che a occuparsi sia il meccanico specializzato; e i sentieri continueranno a distruggersi, le cicche di sigaretta a disperdersi, i gradi di difficoltà a gonfiarsi in modo smisurato, per la gioia d’un sistema di rimbecillimento che trova sempre nuovi adepti e i miscredenti in numero sempre minore.
C’è chi nello scender dall’aereo si mostra confortato dal sentir parlare finalmente nella propria lingua, e chi esodato crede d’essere esondato; noi partiamo da Bergamo senza fierezza alcuna e ritorniamo sempre a malincuore a confonderci fra le luci e le ombre d’un paese già mezzo affondato che altro fare non sa se non colpevolizzare d’ogni cosa i naufraghi. Anche qui è l’acqua a conceder vita e morte, aiuto od abbandono, e strade tortuose portano al mare; e nonostante la rumenta venga smaltita diversamente (là la bruciano, qua la deportiamo), il problema è comunque l’aria che dappertutto sembra aver pei vivi e i morti lo stesso pessimo odore di già visto e già vissuto.

(foto tratta da Gulliver outdoor)

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