Elucubrazioni semiserie di mezza età (trascorsa/trastullata/persa) in chiave verticale. Il classico sermone di mezza stagione.
“Always climbing, to fall down again”
(Alice In Chains, da Voices)
Come cambiano le cose con la presa di coscienza che di tempo sopra appigli e appoggi, veri o finti, ne hai passato! Prima contava soprattutto l’aver fatto, realizzato; ora conta quantomeno l’aver visto, o potrei dire: l’esserci stato. Che poi, fra appigli e appoggi, quali ti ricordi più facilmente? Ai primi si concede un privilegio forse immeritato, giacchè è piuttosto coi secondi che sali generalmente, come tecnica di base comanda, e che nell’attimo cruciale ti sanno salvare!
Andrea Gallo sosteneva per se stesso che questo percorso di ricerca verticale conducesse dagli appigli più piccoli a quelli più belli: un po’ è certamente vero, ma – al di là che fra di essi è sempre possibile trovare un equilibrio – ci vogliono comunque tempo ed esperienza a riconoscer solo o, prima degli altri, quelli.
Molto probabilmente la linea parabolica che segnano le mie prestazioni rispecchia le diverse decisioni che ho scelto di prendere, ma ciò che scalo mostra quel che sono solo in un certo senso e fino a un certo punto. Ecco perchè il presunto riconoscimento sociale che si concede ai forti ha poco senso, in quanto non significa od implica niente al di là della pura prestazione sportiva, ma anche un atleta più o meno forte forse può essere (anche) qualcos’altro. O no? Spetta a loro dimostrarlo, come ad esempio fece Chabot. A noi, benchè ormai siamo mediamente vittime dei social, spetta unicamente dimostrare a noi stessi che sappiamo trovare un equilibrio fra passione e quotidianità, ed un senso ad una pratica che altrimenti non ne ha.
Il percorso che ognuno di noi segue ci porta su strade diverse, pur partendo dalla stessa esaltazione. Terminati tutti i sondaggi online sui gusti personali o sulla qualità dei materiali, sarebbe bello proporne uno che ponesse la questione: cosa ti ha lasciato, dopo anni, questo impegno intensivo extralavorativo? A) Consapevolezza di se stessi; B) Consapevolezza del mondo esterno; C) Un fisico scolpito; D) Emozioni indimenticabili; E) Nulla.
Oppure: cosa ricordi maggiormente, dopo anni, di quest’attività? A) Appigli e/o appoggi; B) Panorami; C) Amici; D) Palestre indoor; E) Nulla.
Attenderei poi con ansia il commento tramite editoriale di un qualche professorone della verticale, più o meno dedito allo spaccio di droga minerale od alla propaganda commerciale.
Quello che sono e che siamo come comunità, o che dovremmo voler diventare, nessuno me lo può suggerire; tutt’al più, e già vi concedo molto, ne possiamo parlare. Senz’altro qua c’è ancora un po’ di posto per chi il proprio posto giusto nel mondo ancora con esattezza non lo ha definito, e scalando ancora lo ricerca, guardandosi un po’ attorno e un poco dentro fra culi per aria e muscolose schiene, fra libertà etiche e solide catene.
Il bello e il brutto tutti li sappiamo, è come la medaglia e il suo rovescio: la parete che si staglia luminosa di prima mattina e la cacca di climber lì nei pressi la cui puzza si fa sempre più vicina. Quello che siamo è lo stato delle cose che contribuiamo a formare ogni giorno, senza mai distruggerne una parte o aggiungere qualcosa che non siano spit. Salvo casi rari (ed esposti mediaticamente in quanto comodi al sistema), raramente qualcuno si spinge a muoversi al di fuori del proprio ambito di passione o di lavoro, e/o del proprio territorio, e allora trova subito chi – del territorio avendo fatto un mito, e del servilismo opera o carriera politica – lo redarguisce: così accadde tramite letterine minacciose a Pareti ai tempi della guerra eterna – quando, accusato di noglobalismo o comunismo, Andrea Gennari Daneri meritò da certi lettori il consiglio di recensir piuttosto nuove falesie! – ; così accade oggi ai cantanti recalcitranti, per non parlar dei sindaci che si oppongono alla chiusura dei porti ai disperati: solo gli esseri umani ricchi e le loro merci ci danno speranza di nuova vita da replicare come automi, il resto è merda che annaspa nel mare dei profitti da capitale, e ci può anche crepare. Tanto la colpa la sappiamo già a chi dare: scafisti, ONG, buonisti, perfino ai negri stessi, insomma a chiunque al di fuori di padroni e Stato. Non so neanche fin qui come ci sono arrivato, dev’esser forse perchè la falesia che idealmente preferisco si trova in riva al mare o nelle sue immediate vicinanze, cosicchè il naufragio è ipotesi che vedi ad occhi aperti, più che stando in mezzo a un bosco o a un prato, anche se l’hai solo immaginato.
Come il coraggio o la disperazione, come il tempo e come il mare, anche l’arrampicata è prendere o lasciare; accettare se stessi e i propri limiti e nel contempo faticare per superarli. Ma c’è qualcosa che da un tot mi suggerisce una lettura forse un po’ troppo ambiziosa, ovvero: che quella posizione che ricerco freneticamente dibattendomi come una serpe sulla placca corrisponda, su altro piano, alla posizione che vado cercando fuori, nel mondo, e dentro, nel profondo. Ecco allora perchè il riuscire mai davvero mi soddisfa: perchè quella catena l’ho raggiunta, non me la sono tolta. Non è un processo di liberazione che sto percorrendo, bensì di minuscola e modesta accumulazione. Poco o nulla di diverso da quanto faccio già in città e da quanto mi succede attorno. Non dovrebbe stupirmi quindi che sempre più spesso il sorriso, perfino quello d’una momentanea vittoria, mi si trasformi presto in ghigno e il viso in grugno.
La presa di coscienza è quasi certamente l’appiglio più sfuggente, più difficile da scovare e da tenere in pugno; eppure, è anche quello in grado di mantenerti dignitosamente vivo. Quello che in nessuna gara viene considerato, giacchè l’intrattenimento deve aver la meglio nella fase temporale che segue il sacrificio lavorativo. Ed io la tengo stretta tanto che la mano trema, la roccia si sbriciola e la presa – toc! – si rompe: casco così nel baratro del circo mondano e modaiolo…ma mi ritrovo appeso alle mie quattro sicurezze in croce, a un imprevisto che modifica il destino, preso al volo; e però, siccome son restato lì sospeso, quantomeno so che non sono rimasto solo.
(foto tratta dal Climbing Business Journal)