Da domani (ma forse già fin d’ora), tutti leghisti!
Mi ci gioco le scarpette, prima di appenderle al chiodo.
Il pensiero che non mi rincuora è, venendo al sodo: che sia già l’epoca dei giochi di potere anche nella verticale?
“anche i climbers sono tanti e votano.”
Ricordate il prode difensore degli arrampicatori (e dei cacciatori) dall’attacco della lobby ambientalista? Il politico verde oggi si riconosce dalla tessera di partito, mica dalla coscienza ecologica. Quanto al climber, il suo miglior difensore spero proprio non debba essere un ottuso regionalista padano; nè evita l’errore il buon Andrea Gallo, nome mitico e nume tutelare del Finalese verticale, nel pensare che lo scalatore d’oggi gli possa in qualche modo somigliare. Son passati i tempi ed oggi solo l’egoismo ha vinto su ogni altro valore. E’ l’egoismo a spingere il leghista imbragato a dar battaglia a negri e ad avvoltoi, per concedere al climber imbranato di potere anch’egli farsi allegramente i fatti suoi, senza trovar nidi con ovetti per cui provar pena, e senza che nessuno gli possa chieder l’elemosina in catena, od all’ingresso serale a Finalborgo, rovinandogli la cena.
Ed è sempre l’egoismo a spingere il praticante medio a lordare il paradiso terrestre di cui può godere, e che dovrebbe difendere a spada tratta se davvero vi tenesse; solo a tenersi in forma invece quello pensa, e tutt’al più ad unirsi in associazione con energumeni simili a lui, al fine di difendere ancora maggiormente il proprio interesse.
Prendo amaramente le distanze dagli uni e dagli altri.
Non credo che la politica debba essere un gioco di ricatti, nè mi basta che si risolva in uno scontro fra piccoli poteri, con piccoli vantaggi dedicati ad i più scaltri o ai meno seri.
Purtroppo anche i climbers votano, temo sia vero, e per fortuna non so come e cosa; procederei pei boschi col falcetto altrimenti, e non per farmi strada fra la vegetazione irta e spinosa.
Mentre a Toirano – zona ancora in fase di espansione – il gruppo di arrampicatori e chiodatori locali scomoda le amministrazioni (leghiste, pure qui, e ben poco green) ad interessarsi allo sblocco dei divieti di chiodatura relativi a certe parti della valle del Vero, nella vecchia Finale succede l’opposto: ovvero, sono le amministrazioni del luogo, assieme al Club Alpino e ad alcuni (supposti) ambientalisti, a denunciare il problema dell’eccesso di chiodi infissi sulle pareti della zona.
Dovrei in teoria inneggiare alla modalità anarcoide con cui chi chioda le falesie si muove liberamente, spesso senza chiedere permessi o consultare enti territoriali; denunciare, come fa Gallo, l’ipocrisia di istituzioni locali ed ufficiali come il CAI, che dando un colpo al cerchio e uno alla botte si muovono subdoli senza far ben capire in quale direzione; e caldeggiare una difesa strenua ad ogni livello del nostro particulare…se non mi preoccupasse invece l’atteggiamento di chi ci patisce, poverino, che gli tocchino il giochino, finendo per attaccarsi al treno veloce delle rivendicazioni politiche più minime e meschine.
A quarant’anni vedo il mio futuro come un insieme di falesie la cui infinità d’itinerari non riuscirò mai a completare; dunque, perchè mai si dovrebbe continuare a chiodare? Per i nuovi arrivati, si dice. Per consentire a tutti d’avere un terreno di gioco. Sembra altruismo, e invece è primariamente profitto, opportunismo: il solito discorso dell’indotto, dello sport-alternativo-ormai-quasi-massificato che ha trasformato un borgo delizioso in un centro commerciale per milanesi annoiati (ma anche per liguri con manie di grandezza), red carpet incluso ed inclusivo di maltolto. Il problema nella sua interezza è inesistente e già risolto: che i climbers e gli ambientalisti si parlino, come è sempre stato fatto, senza necessità che vengano lanciate provocazioni, polemiche e allarmismi a mezzo stampa. Vero è che siamo forse diventati troppi, in un ambiente limitato, a volere usufruire delle stesse bellezze naturali: climbers, bikers e trekkers si contendono il parcheggio a Monte Sordo nel weekend, e nelle feste “sembra di essere all’Ikea” od alla Fiumara.
Si stava meglio quando si stava peggio, quando l’arrampicatore era uno strano, strambo, un poco matto, merce rara. Il chiodatore allora inseguiva un proprio sogno e non le più recenti necessità indotte più o meno a forza dal mercato dell’outdoor. C’era posto per tutti, bestie e cacciatori inclusi, semplicemente perchè s’era in pochi. In merito a questa evoluzione/involuzione ho spesso detto, e non è il caso che ogni volta mi si richiami all’ordine della dittatura democratica per cui si dovrebbe garantire a tutti il diritto alla scalata. Non prendiamoci in giro. Questo sport è stato banalizzato e raccontato come fosse tutt’altra cosa per poter vendere scarpette e imbragature, non ci son diverse spiegazioni o sono tutte fregature. Quando scalavo io, ai tempi della prima palestra d’Italia al liceo King mi guardavano come un cretino ed un marziano, e certo la cosa ha contribuito a farmi crescere adolescente pieno di problemi. Ma bisogna essere scemi per non accorgersi che mode e tendenze son tutte sospinte da un sistema di coercizione sorridente che non ti spiega niente al di là del concetto di divertimento, e del tuo presunto diritto allo stesso. L’arrampicatore idealista e rispettoso che descrive Gallo è ormai quasi estinto, non più riproducibile. L’arrampicatore moderno facilmente sgarra e se ne frega del prossimo suo (alla faccia della comunità) e anche delle regole condivise; per lui esistono solo il grado su cui discettar per ore e la scorecard da aggiornare. Più sento parlare i climbers, ad esempio dei limiti loro ingiustamente imposti, e più divento birdwatcher. Vero è che talvolta, come spesso in questo paese, far rispettare certe regole diventa esercizio grottesco e ingiustificato, come quando volarono le multe nell’albenghese senza che nessuno avesse mai visto più d’un uccellino. Ma quando ti cali a fianco ad una via con un bucone, come mi successe a Cucco, e da quel nido fugge spaventato un volatile facendone cascare un ovetto che si sfracella al suolo…capisci d’esser tu nel posto sbagliato, e non loro ad aver occupato un attico vista mare senza rispetto dell’altrui proprietà. Il cadaverino rosa venne lanciato nel bosco senza troppo riguardo, con appena un minimo di commozione, e poco dopo altri climbers rapaci si preparavano ad affrontare il tiro. Il Rockstore tempo addietro mise un avviso alla partenza di Vivere di rabbia al Solarium (o Specchio) di Monte Sordo: la differenza fra le passioni si vede pure da queste piccole attenzioni ed auto-limitazioni. Perseverare nella difesa dei propri esclusivi voleri, trasformandoli in diritti, è atteggiamento tipico di un certo fascioleghismo attuale, che si sta diffondendo a macchia d’olio ed è facile capir perchè. Andare incontro alle esigenze altrui è comportamento ormai inusuale, fuori moda, sconveniente. Meglio difendere la cosiddetta e supposta propria gente, attività questa assai proficua a livello del politicante, che diventa punto di riferimento di un’èlite fra tante. Ebbene, oggi che siamo tanti e pretendiamo di contare, di levare alta la nostra voce, siamo anche noi un’èlite arrogante che conta solo in quanto spende, uomini valutati in base al portafogli che mantiene in piedi un’economia di nicchia, la quale peraltro sopravviveva anche prima ed ora vive solo una rincorsa al soldo, pur non patendo esattamente i problemi di Kalymnos. L’outdoor è puro business, la chiodatura sfruttamento delle risorse naturali, l’arrampicatore automa; e il tutto mantiene degli antichi valori condivisi solo un pallido ricordo. L’autonomia ed il senso di responsabilità dei climbers, tanto decantati, davvero hanno bisogno di un aiutino politico e della minaccia elettorale? Davvero contiamo in quanto votiamo, e nulla più? Davvero abbisogniamo di questi mezzucci, e ne vogliamo approfittare?
Vorrei proprio capire se anche i climbers, come quasi ogni altra categoria sociale che si rispetti – o meglio, che intenda farsi rispettare (esclusi quindi questuanti, zingari, immigrati e poche altre minoranze) – intendano abbassarsi a buttare in politica anch’essi il proprio patetico, frustrato e sfrontato egoismo di categoria: l’ennesima difesa corporativa; oppure se vogliano, almeno loro, evitare questa squallida deriva.
Se dal coraggioso (benchè poi smentito) ‘manifesto dei diciannove’ siamo discesi al livello delle roboanti dichiarazioni di Rixi una o più ragioni storiche ci devono pur essere, e non è difficile risalirvi. Occorre però farlo per evitare che il nostro entusiasmo si suicidi annegandosi nella torbida palude degli interessi privati, dove si raccolgono gli istinti animaleschi e si scontrano le ottusità di uomini ormai allergici al confronto, a meno che non sia battaglia mediatica di facciata, messinscena ipocrita, teatrino demenziale di una politica in picchiata verso un gran finale pessimo: quello in cui la mia passione sarà regolata, carezzata, blandita, incasellata; difesa da figuri con i quali nulla vorrei avere a che fare, che a stento c’entrano qualcosa con (i valori per me ancora insiti nel)l’arrampicare.
(foto tratta da Genova 24)
Ringrazio Liguria Verticale per la consueta ospitalità.
A margine, dopo averne ricevute privatamente alcune vostre (siete diventati timidi e riservati), aggiungo ancora qualche riflessione che oltrepassa il ragionamento originale per addentrarsi nei più specifici meandri della (non sempre entusiasmante) discussione social-izzata.
Il già citato sito Alpinismi, raro esempio di ragionevolezza applicata al reale, tenta di spiegare come si sia trattato alla fin fine di una mezza bufala, o meglio di un comunicato serio e pure motivato, ma abilmente o goffamente frainteso. Abbiamo pertanto assistito ad “un esempio di giornalismo poco zelante”, che ha strumentalizzato e sviato le giuste e moderate istanze “di preservazione della wilderness”. Colpa dei soliti “quotidiani generalisti” (i media mainstream), che hanno avuto gioco facile a buttarla in caciara contrapponendo opposte fazioni “con un mero “ambientalisti contro climber” o “stop alla chiodatura nel Finalese””, e facendo così scoppiare un “colossale casino”.
Non si tratterebbe invece di attacchi, minacce e accuse, bensì di un onesto richiamo al buonsenso.
Questa parola-chiave che tutto e nulla spiega, però, è da sempre ampiamente utilizzata a sproposito; il buonsenso è come i gradi delle vie o della temperatura: si valuta ed esprime in base a quel che è percepito. “Forse non basta più il buon senso”, dice quindi Gogna sul suo blog; soprattutto – aggiungo io – se è il buon senso legaiolo, senz’altro più ipocrita che rivoluzionario.
Qual’è il buonsenso che tiene assieme la consapevolezza che “Il turismo legato all’outdoor oggi rappresenta una grande opportunità” (già, ma per chi?) e l’evidente, corretta presa di coscienza per cui “Non si può chiodare all’infinito” (così come non si può produrre, trasportare merci, crescere all’infinito: la crescita infinita non esiste, o non è sostenibile)? Da una parte il consueto giro di denari, che si vorrebbe eterno e anzi crescente; dall’altra il senso del limite etico, ambientale, la sostenibilità non tanto di quattro chiodi, quanto di decine e decine di automobili e di nuovi barbari, che se sfuggono all’incubo prospettato da un centro commerciale debbono altresì misurarsi con la tenuta di un ambiente delicato, che ci chiede rispetto, cura ed attenzione.
Alpinismi torna a rassicurarci del fatto che “No, non si tratta di una presa di posizione contro il turismo arrampicatorio.” Dunque quest’ultimo è considerato come esclusivo vantaggio, opportunità piuttosto che come problema, anche nei suoi aspetti negativi. Qualcuno, amante dei territori vergini e prospettando un’esistenza più sana, sostiene che “c’è bisogno (…) che gli escursionisti e i climbers pensino che non stanno in un parco divertimenti all’aperto, ma in luoghi che sono di tutti, comprese le bestie”; pertanto, chiosa, “i turisti non servono. Perché il turismo è un’industria. E come tale non può essere “slow” o “responsabile”.”
Bisognerebbe quindi capire come sopravvivere senza turismi facili o alternativi, nella consapevolezza che anche quella della montagna e della scalata, pur nel suo piccolo, è un’industria. Così come le altre.
E fra le altre, quella delle due ruote è senz’altro la più numericamente rilevante. Non per caso Alessandro Grillo suggerisce una chiave di lettura maliziosa per cui “con la storia delle rocce iperchiodate, si voglia cercare di tener nascosto un fatto ancora più devastante ed economicamente più conveniente: il downhill” (immaginando così una nuova contrapposizione fra appassionati); pur riconoscendo che “il fenomeno del downhill, seppur più impattante dell’arrampicata, sia un nulla in confronto alla devastazione della costa” – ritorno in auge d’una coscienza ecologica nel climber, peccato che ai più la problematica interessi zero.
Come tutti i cambiamenti, in sostanza, anche questo dello sviluppo incontrollato dell’outdoor andrebbe almeno un minimo gestito; se non dall’alto, opzione non sempre auspicabile (anzi!), quantomeno attraverso una comune consapevolezza. Altrimenti piccole o grandi contraddizioni, equivoci ed incomprensioni saranno sempre all’ordine del giorno, ed i giornali sempre pronti a specularci sopra.